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Tondini
Elisabetta Tondini
Agenzia Umbria Ricerche
Focus AUR
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Mauro Casavecchia
Agenzia Umbria Ricerche

Le conseguenze economiche dell’inverno demografico in Umbria

20 Feb 2024
Tempo di lettura: 6 minuti
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Schematizzando, possiamo dividere il periodo 1995-2022 in tre fasi.

Nella prima, quella che va dal 1995 al 1999, il livello del Pil pro capite umbro continua a superare quello italiano, ma si cominciano a scorgere segnali di difficoltà, testimoniati da una più lenta dinamica nella regione della grandezza in questione (1,42% contro 1,60% italiano). Sul fronte lavoro, l’Umbria si distingue per un incremento occupazionale praticamente doppio rispetto a quello nazionale: sono gli anni del progressivo sviluppo delle forme di lavoro flessibili che hanno determinato una sostenuta ripresa dell’occupazione, soprattutto femminile. Invece, la popolazione cresce molto lentamente, e comunque più in Umbria che in Italia, in controtendenza rispetto alla componente in età lavorativa che, invece, presenta cenni di cedimento.

La seconda fase, dal 2000 al 2011, è segnata dalla grande crisi finanziaria, che ha colpito l’Umbria in modo particolarmente pesante. Questo periodo marca anche l’inizio del declino italiano e del progressivo ampliamento della forbice in termini di competitività rispetto ai partner europei. La produttività del lavoro in Umbria, che fino al 2001 si mantiene al di sopra del dato italiano, comincia a declinare in modo più accentuato. A fronte di una crescita occupazionale ancora superiore a quella media del Paese, anche se in rallentamento rispetto al periodo precedente, il livello del Pil pro capite umbro scende al di sotto di quello nazionale e se ne allontana progressivamente con una dinamica media annua inferiore allo zero (a fronte di uno 0,63% nazionale). Intanto il fattore demografico interviene positivamente: la popolazione presenta un’impennata, in Umbria come in Italia, anche per l’accelerazione dell’immigrazione legale straniera (che si traduce in residenza anagrafica), conseguente alla regolarizzazione introdotta dalla legge Bossi-Fini del 2002. Dal 2003 al 2010, in particolare, il saldo migratorio con l’estero raggiunge valori molto elevati, particolarmente in Umbria, poi tenderà a ridursi.

Il 2011 è l’ultimo anno in cui in Umbria la popolazione in età lavorativa si accresce (in Italia sarà l’anno dopo).

Nell’ultimo periodo, dal 2012 al 2022, l’Umbria prosegue l’allontanamento dall’Italia quanto a Pil pro capite (che continua a diminuire e in Italia ad aumentare) e a produttività del lavoro (per effetto di una diminuzione media più marcata nella regione).

“Nell’ultimo decennio il fattore demografico comincia a produrre effetti negativi che amplificano la situazione di svantaggio dell’Umbria”

In questo quadro comincia a produrre effetti negativi anche il fattore demografico, che amplifica la situazione di svantaggio dell’Umbria. Dal 2014 la popolazione inizia a intraprendere un percorso di continua discesa, più evidente che in Italia; si assottigliano le fasce più giovani ma anche quella di 15-64 anni. Lo scoppio della pandemia non fa che accentuare una tendenza già in atto.

In sintesi, il problema principale per l’Umbria (e per l’Italia) resta quello della produttività che, nel periodo segnato dalla crisi finanziaria, sembra essere stato l’unico dei tre fattori a determinare l’allontanamento dall’Italia, avvenuto nonostante il vantaggio della regione in termini di tasso di occupazione e di quota di persone in età lavorativa sulla popolazione. Il risultato è stato una performance del Pil pro capite molto negativa e in controtendenza rispetto a quella nazionale.

Invece nel decennio più recente, alla minore competitività del sistema regionale (la diminuzione della produttività del lavoro continua a essere più accentuata di quella italiana) si sono aggiunti anche fattori demografici e occupazionali a rendere più critica la situazione in Umbria, ovvero:

·       una diminuzione un po’ più marcata della quota di popolazione in età lavorativa sulla popolazione totale

·       una crescita della propensione all’occupazione assai più contenuta di quella nazionale.

È stato dunque il contributo congiunto di ciascuna delle tre componenti ad aver allontanato il livello di Pil pro capite della regione da quello medio del Paese.

Data l’evoluzione demografica in corso, cosa possiamo aspettarci per il futuro? Ovvero: in che misura il fattore demografico potrà incidere sul potenziale produttivo del territorio umbro?

Le stime dell’Istat indicano che tra vent’anni la popolazione totale umbra potrebbe perdere oltre 65 mila unità e, in particolare, oltre 101 mila persone in età attiva. Dopo altri vent’anni si avrebbe una ulteriore perdita di oltre 96 mila abitanti, e di oltre 57 mila persone in età da lavoro, seguendo un’involuzione molto più rapida di quella su base nazionale.

“Tra meno di 40 anni le trasformazioni demografiche rischiano di far perdere il 30% del Pil in Umbria”

In prospettiva, dati gli scenari demografici e supponendo – per semplicità – una invariabilità dei livelli della produttività del lavoro e della partecipazione al lavoro della popolazione in età attiva, queste trasformazioni demografiche impatterebbero negativamente sul livello di Pil, per tassi di contrazione più elevati in Umbria che in Italia. Nello specifico, dal 2022 al 2042 l’Umbria perderebbe, per il solo effetto delle trasformazioni demografiche, il 19,1% del Pil (contro -14,8% nazionale) e nei successivi venti anni un ulteriore 13,4% (contro -11,0%). Complessivamente, tra meno di quarant’anni il Pil dell’Umbria rischierebbe di scendere del 30% (-24% in Italia) rispetto al 2022.

Tali dinamiche tenderebbero ad allontanare ulteriormente il livello di Pil pro capite umbro da quello medio nazionale: fatto 100 il dato italiano, quello umbro scenderebbe da 85,5 del 2022 a 83,6 al 2042 quindi a 83,1 venti anni dopo.

Su quali fattori si potrebbe agire per contrastare questo declino?

Un primo elemento riguarda la crescita della popolazione, che può essere ottenuta sia, in un’ottica di lungo periodo, attraverso una ripresa della natalità sia, già nel breve, favorendo l’attrazione di nuovi residenti in età attiva. Secondariamente, si potrebbe cercare di aumentare il numero di lavoratori favorendo un innalzamento della propensione al lavoro, soprattutto nella componente femminile, visti i potenziali margini di espansione del nostro Paese che, da questo punto di vista, continua a collocarsi nei posti più bassi della graduatoria europea. Oppure ancora, l’obiettivo dell’aumento della popolazione in età lavorativa potrebbe eventualmente essere perseguito anche attraverso un innalzamento dell’età pensionabile, con tutti i limiti di accettabilità sociale di un intervento di questo tipo.

“La leva principale da utilizzare per invertire la tendenza in atto resta ancora quella dell’innalzamento della produttività”

Tuttavia, se è vero che un mix di politiche su questi fronti potrebbe in qualche modo mitigare gli effetti negativi sopra descritti, è comunque altamente improbabile che riesca a disinnescarli completamente. Ciò per dire che la leva principale da utilizzare per invertire la tendenza in atto resta ancora quella dell’innalzamento della produttività.

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