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Luca Diotallevi
Università degli Studi Roma Tre

Crisi demografica e impoverimento della nostra autocoscienza

22 Mag 2023
Tempo di lettura: 7 minuti

Persino un ministro (Giorgetti) che si apprestava a presentare l’ipotesi di un importante provvedimento a sostegno economico della natalità ha chiarito: non pensate che basti. In materia di declino demografico soldi e servizi (da soli) non sono la soluzione. Persino l’analisi economica dei trend demografici sta cambiando il paradigma: i valori non possono essere ignorati. E la storiografia converge: si pensi al recente “Occidenti e modernità” di Andrea Graziosi.

In Italia anno dopo anno nascono sempre meno bambini. Inoltre, da decenni la drastica riduzione della mortalità infantile e l’aumento della speranza di vita rendono più gravi e meno percepibili i livelli del dramma demografico. L’Umbria non solo è – per così dire – all’avanguardia in queste classifiche, ma anche in altre, come quella della emigrazione e soprattutto nella emigrazione di giovani qualificati.

Se si tiene conto di tutti i fattori (quelli citati ed altri ancora), risulta che in Italia – ed ancor più in Umbria – non solo vive un numero sempre minore di individui, ma anche che questi individui sono sempre più vecchi. Il declino demografico è ormai prossimo ad una ulteriore accelerazione e si avvicina un brusco scalino, in discesa. Una enorme quota di italiani (ed ancor più di umbri) si sta avvicinando alla parte inevitabilmente conclusiva della propria vita.

“Perché sempre più raramente si accetta di mettere al mondo figli e figlie?”

A questo si aggiunge che gli immigrati che arrivano rapidamente assumono i nostri comportamenti riproduttivi. Sicché altrettanto rapidamente si riduce il loro contributo al rallentamento del nostro “inverno demografico”.

Di fronte ad una situazione del genere è offensivo e fallace fare del moralismo, ed allo stesso tempo è fuorviante non aver chiaro che accogliere o non accogliere figli e figlie non dipende esclusivamente da incentivi e meno ancora da leggi. Chi nutre dubbi in proposito può fare due cose.

Può guardare alla cartina che segue, ed accorgersi che in Italia si fanno un po’ più figli in alcune delle province più ricche ed in alcune di quelle meno ricche. Dunque: il reddito, ma anche la quantità di servizi, da soli spiegano poco.

Oppure può guardare al caso cinese. Diversi lustri orsono il partito-stato ordinò di non fare più di un figlio. Qualche anno fa arrivò il contrordine. Successe che mentre l’ordine (non fate più di un figlio) aveva funzionato, il contrordine (ricominciate a fare più di un figlio) non funzionò. Nel frattempo, era successo qualcosa nella società e nella cultura cinesi che non poteva essere ignorato.

Sebbene per spiegare la crisi demografica vadano chiamati in gioco i valori, anche questa prospettiva, se usata male, grossolanamente, non coglie il bersaglio ed offende inutilmente.

È vero: accogliere un figlio o una figlia equivale ad una perdita. È inutile nasconderlo. Perdita di risorse materiali che potrebbero essere investite altrimenti, perdita di gradi di libertà importanti. Se non si parte di qui, si fa retorica. E se questa retorica la fanno coloro che hanno fatto della sessuofobia un credo, essa oltre che vuota questa retorica suona anche sgradevole. La strada da percorrere è più lunga e lo stile da adottare deve essere lucido e delicato insieme.

In un individuo il sentimento di povertà non nasce da un dato secco (quanti soldi ho), ma da un confronto (quanto ho rispetto a quanto potrei avere). La scelta del far figli o no non dipende semplicemente da quanto costano, ma anche e forse soprattutto da quanto percepisco che mi tolgono di ciò che altrimenti potrei avere, che desidero, di cui sento di aver diritto. In questo come in ogni altro caso è alle aspettative che bisogna guardare ed è con le aspettative che bisogna fare i conti. Il possibile (una scelta) occupa lo spazio che gli lascia l’ovvio (ciò che dà per scontato la società e la cultura in cui vivo).

Le aspettative sono un costrutto socio-culturale essenziale. Hanno un valore ed una potenza straordinari. Spingono avanti e fuori dal proprio bozzolo. Possono e debbono essere discusse, è suicida demonizzarle. Demonizzare aspettative e confronti equivarrebbe ad avere nostalgia di cose come la servitù della gleba, quando la maggior parte degli individui non si sognava neppure di aver diritto a ciò di cui godevano i propri padroni. Equivarrebbe a sognare un ritorno ai tempi, poi non così lontani, in cui la maggior parte delle donne era trattata da macchina procreativa, e spesso era stata convinta di non essere molto più. Il dispositivo, poi, funzionava ancor meglio se queste falsità erano giustificate con la “natura” o magari con “la volontà di Dio”.

La tesi che non si fanno figli (solo) per egoismo va respinta e respingerla equivale a tornare con umiltà alla domanda: perché sempre più raramente si accetta di mettere al mondo figli e figlie?

Oggi, se abbiamo ben chiaro cosa i figli e le figlie tolgono, al contrario abbiamo sempre meno chiaro cosa dànno. Da questa base deriva un calcolo assai diffuso, ma sbagliato.

“L’Umbria dei “borghi” è in realtà un’Umbria che fa meno figli di quanti se ne fanno a Milano o a Bolzano”

La cultura attualmente più diffusa e condivisa contiene un calcolo sbagliato sui costi e sui benefici di accogliere figli e figlie.

A volte conosciamo, apprezziamo e conteggiamo solo i costi di un figlio o di una figlia. Altre volte ragioniamo di figli o di figlie come di un diritto, trascurando quando sia orrendo pensare che si sia in diritto di “avere” un’altra persona (grande o piccola che sia). O ancora ragioniamo di un figlio o di una figlia come di uno strumento per abbassare rischi che ci riserva il futuro: la vecchiaia oppure la continuazione della specie o della nazione. Se un figlio o una figlia vengono trattati come strumenti per uno scopo, insieme alla responsabilità dell’orrore di ridurre una persona a strumento ci si espone alla elevatissima probabilità che si trovino altri strumenti più convenienti per ottenere quegli stessi scopi. Insomma, la domanda sul perché accogliere figli e figlie esige una risposta dignitosa e che insieme possa valere per me, oggi, una risposta che sia capace di dare al calcolo un risultato positivo tangibile e credibile. Senza di ciò si torna al punto di partenza: soldi e servizi (servono, però) non bastano.

Di passaggio, vale la pena osservare letta nella sua bancarotta demografica, anche la nostra cultura e la nostra società umbra svela un lato che, mentre lo ignoravamo o lo nascondevamo, è divenuto prevalente. L’Umbria “verde”, l’Umbria “mediana” (tra eccessi e difetti di modernizzazione), l’Umbria dei “borghi”, l’Umbria “solidale” e “spirituale”, è in realtà un’Umbria che fa meno figli di quanti se ne fanno a Milano o a Bolzano, a Verona o a Piacenza. È solo o sempre di più l’Umbria della “bevagnizzazione” (copyright Giuseppe De Rita). È un’Umbria, quella delle ultime generazioni, che ha deciso di godersi l’eredità, di non credere in nulla, di fare il minimo indispensabile, il più possibile delegandolo allo Stato (esigendo, o pietendo, elemosine). Umbri ed umbre che hanno deciso di riposarsi molto anche a costo di accontentarsi di poco. Potremmo dire che anche questo è stata l’”Umbria rossa”, e sarebbe vero solo se aggiungessimo che tanto “devozionismo cattolico assistito” è andato nella stessa direzione (isterismi tradizionalisti inclusi) e che – almeno per ora – i cambi di colore politico sembrano più una staffetta, una successione, che non un’alternativa.

Oggi molti inganni “natalisti” sono stati finalmente smascherati e la questione della natalità si rivela nei suoi caratteri più veri e dunque più difficili.

Oggi abbiamo un rapporto diverso e più vero con i limiti. Oggi, se li accettiamo, rispettiamo limiti che materialmente non sarebbero più insuperabili. Oggi se vogliamo, ma solo se vogliamo, possiamo non confondere bisogni e diritti ed accettare di non aver affatto diritto a tutto quello di cui avvertiamo la voglia, altrimenti nessuno ci deride e ci stoppa se camuffiamo i bisogni da diritti.

In questa condizione sociale e culturale, per rispettare limiti che la natura non è più in grado di imporci, serve una dose enorme di autodisciplina, e questa necessità appare chiara e drammatica proprio mentre sono venute meno autorità e comunità, senza le quali non si apprende alcuna disciplina né si diventa davvero liberi. Naturalmente non mancano i nostalgici delle autorità e delle comunità del passato, ma per fortuna le loro nostalgie sono tanto spaventose quanto improbabili.

E così siamo al punto. Dove, se non di fronte al prossimo inatteso e dunque fastidioso ed indisponente, posso fare esperienza di un limite allo stesso tempo violabile ed inviolabile? Dove, se non di fronte al corpo dell’altro, all’ospite sconosciuto, al prossimo che mi avviene, posso intuire quanta differenza corre tra violare quel limite o non violarlo lasciando spazio nella mia vita e facendo accoglienza?

Accogliere un figlio o una figlia ha alternative, molte, ma non equivalenti.

Accogliere un figlio o una figlia significa riconoscere che ho la possibilità di fare una cosa grandissima: donare vita; non solo godere della vita, ma anche donare la possibilità di goderne. Certamente ad una tale possibilità sono libero di rinunciare, ma non posso barare con me stesso sulla portata di questa rinuncia. Accogliere un figlio o una figlia non è certo l’unico caso di rispetto per un limite non materialmente obbligato. Accettare un figlio od una figlia è però un caso eminente di rispetto per un limite non materialmente obbligato.

Accogliere un figlio o una figlia significa mettermi in condizione di dovergli o doverle non la mia maschera, ma la mia verità.

Accogliere un figlio o una figlia significa impegnarmi ancor di più in quella che la tradizione chiamava “amicizia coniugale”, significa accettare di condividere qualcosa di importante con un’altra persona, foss’anche attraverso ed oltre i rovesci della vita.

Accogliere un figlio o una figlia significa accettare che qualcuno qualche volta ti sia sconfinatamente grato e che qualche altra senta di doverti “uccidere” per crescere. Significa accettare di essere allo stesso tempo molto di più e molto di meno della immagine di comodo che inevitabilmente ciascuno di noi si fa di sé stesso.

Ragioni come queste sono scomparse dai fattori del calcolo attraverso cui nella maggior parte dei casi si decide se far figli o figlie oppure no. Non sfugga, però, che disabituarsi a considerare ragioni del genere non provoca solo una crisi demografica, provoca anche e innanzitutto un impoverimento drastico della idea e della pratica che abbiamo di noi stessi.

Le amministrazioni possono e debbono fare politiche fiscali e politiche dei servizi alla genitorialità ed all’infanzia, ma: non pensate che basti.

Una cultura della natalità è finita, e non è un male che sia finita viste tutte le volte che ha costretto le donne a far figli ed a farne per le esigenze dei campi, delle fabbriche o delle armi; visti tutti gli alibi che ha offerto a tanti uomini per evitare di fare i padri. Dopo quella vecchia, un’altra cultura della natalità s’è imposta: quella nella quale siamo immersi, che ha espresso valori importanti e che sta accompagnando la nostra società verso la scomparsa. Non solo però verso la scomparsa dell’Italia e degli italiani, e prima ancora della popolazione dell’Umbria, ma anche e soprattutto verso un impoverimento secco della nostra autocoscienza, non aumentando dunque, ma riducendo la nostra libertà di scelta.

Il “mondo” di ieri non fu affatto il migliore – benché ritenesse di esserlo – e per fortuna è finito. Nulla ci obbliga a considerare il “mondo” di oggi come il migliore, visto che potrebbe invece essere l’ultimo. Un’altra cultura è sempre possibile: ne sono cambiate tante di culture, perché non mettere in discussione e tentare di rinnovare quella o quelle prevalenti? Di questa possibilità parliamo troppo poco, con troppo poco coraggio e con troppo poca serietà. A riguardo il dibattito pubblico è persino più misero di quanto non lo siano le politiche.

Che fare, allora: prima la cultura e poi le politiche? Domanda sciocca. Quello che si può fare va sempre fatto appena possibile, ma mai come alibi per non fare anche altro.