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Paolo Montesperelli
Sapienza Università di Roma

Dove non volano le cicogne

11 Mag 2023
Tempo di lettura: 5 minuti

“Uno spettro si aggira per l’Europa: …”. Stravolgo questo incipit famoso completandolo così: “… è lo spettro della demografia”. Non è un incubo, perché gli incubi si muovono nei sogni e al risveglio svaniscono nel nulla. Non è un fantasma, perché non è un’ombra dei morti. Quello spettro, invece, riguarda i vivi di oggi e di domani; e a lungo ha percorso silenzioso le nostre vie, nascosto allo sguardo dell’opinione pubblica; da ultimo è apparso a tutti, minaccioso, difficile da scacciare.

La minaccia è di ficcarci dentro una spirale senza uscita, prigionieri di un meccanismo che gli studiosi chiamano “trappola demografica”. Ormai è di fronte a tutti il fatto che in Europa, ma di più in Italia e ancor più in Umbria, la popolazione diminuisce e invecchia, a ritmi molto elevati e difficilmente reversibili.  Ad esempio, nel 2022 i nati in Italia sono stati poco meno di 400mila, mentre i morti oltre 700mila.

“La riduzione delle nascite è influenzata molto da un senso d’incertezza generale: soprattutto nei giovani, il futuro pare fuggire da ogni possibilità di progetto”

A parte gli studiosi più attenti, ce ne siamo accorti solo di recente, perché per molto tempo abbiamo inforcato occhiali vecchi per osservare fatti nuovi. Lanciare l’allarme, sostenere che la riduzione delle nascite è un problema da contrastare sembrava a molti l’auspicio di un triste revival delle “politiche demografiche” in camicia nera o pareva un natalismo naïf, magari infilato dentro una tonaca da prete.

Su altro versante, quell’allarme si traduceva talvolta in una lamentela moralistica: “calano le nascite perché viviamo in una società egoista”, come se il sistema sociale fosse alla stessa stregua di una persona, con la sua propria morale. Invece la società non funziona come un individuo e nemmeno come la semplice somma di tutti gli individui. A indicare la natura collettiva della società e la portata delle dinamiche demografiche sono stati innanzi tutto, com’è ovvio, i demografi, seguiti a ruota dai sociologi e dagli economisti.

Per i sociologi ricordo un “classico”, La folla solitaria, di David Riesman, pubblicato nel lontano 1950. Già allora i processi demografici venivano letti in interazione con quelli socioeconomici e culturali: sicché il rapporto fra nati e morti veniva ricollegato alla struttura economica, cioè al graduale prevalere del terziario sul primario; e tutto ciò era analizzato insieme al mutamento del “carattere sociale”, inteso come modo di vedere e vivere in autonomia o in dipendenza da altri. Una quindicina di anni fa l’AUR riprese il modello di Riesman e lo adattò all’Umbria, ricavando risultati interessanti, chiavi di lettura significative per la loro apertura interdisciplinare e sistemica.

Anche senza rimanere affezionati a Riesman, possiamo provare a esplorare qualche via che oltrepassi questa o quella palizzata disciplinare, per spiegare come mai le cicogne volino altrove, lasciandone poche in direzione dell’Italia. Ad esempio, demografi, sociologi, psicologi sociali e altri ancora potrebbero concordare sul fatto che la riduzione delle nascite è influenzata molto da un senso d’incertezza generale: soprattutto nei giovani, il futuro pare fuggire da ogni possibilità di progetto;  la globalizzazione viene percepita come una spinta volatile e imprevedibile, ma molto influente sulla vita quotidiana; l’insicurezza economica e lavorativa appare come uno stato da cui è quasi impossibile uscire; prima la pandemia e ora le numerose guerre (la “terza guerra mondiale a pezzetti”) accentuano ulteriormente la percezione di un’incertezza esistenziale, che minaccia pure i progetti di maternità e paternità. Insomma, prevale un atteggiamento spesso di attesa o di rassegnato adattamento, venato di pessimismo più o meno latente. Starebbe soprattutto ai decisori politici immettere massicce dosi di ottimismo, magari con potenti interventi di sostegno alle famiglie con figli, oppure grazie all’estensione dei servizi all’infanzia (ma qui siamo indietro col PNRR), o riservando aiuti speciali ai giovani adulti.

“La minaccia è di ficcarci dentro una spirale senza uscita, prigionieri di un meccanismo che gli studiosi chiamano «trappola demografica»”

A mio parere le nascite si riducono anche perché scarseggiano due tipi di risorse strategiche, materiali e immateriali. Per le prime, penso soprattutto ai redditi, oggi in calo e “precarizzati”. Quanto alle altre, mi riferisco al tempo, una risorsa sempre più preziosa perché sempre più scarsa: così è la nostra vita quotidiana in una società complessa, che moltiplica le richieste di tempo da dedicare ad una molteplicità crescente di ambiti; da qui l’esperienza assai diffusa che il tempo non basti mai.

Se scarseggia una delle due risorse, l’altra può in parte supplirla, ma, se sono insufficienti entrambe, bisogna tagliare le attese e i progetti. Ad esempio, i genitori con un reddito basso, perché magari uno dei due è disoccupato, talvolta hanno più tempo da dedicare ai figli; e, per contro, i genitori con alto reddito ma scarso tempo possono ricorrere molto spesso a una babysitter. Ma chi non ha né tempo né reddito sufficiente è costretto ad accantonare ogni progetto di maternità/paternità. Sì, molte volte è una costrizione e non una libera scelta; e la percezione di questa pesante limitazione accresce una “ira senza oggetto”, come direbbero gli psicanalisti; cioè contribuisce a un livore, a un’ostilità senza un destinatario specifico.

Se si seguisse una “politica dei redditi” decente e se si emanassero provvedimenti più incisivi per conciliare i vari tempi di vita (per esempio il tempo di lavoro col tempo per la famiglia), probabilmente rallenteremmo molto il calo demografico e restituiremmo agli italiani un clima di maggiore serenità e progettualità.

Osservazioni analoghe valgono per un’altra risorsa immateriale strategica: l’istruzione. Come varie ricerche hanno dimostrato, essa è un fattore fra i più influenti nell’ambito della demografia. Wolfgang Lutz non può essere più esplicito: “l’istruzione sarà il cuore della demografia nel ventunesimo secolo”, perché l’istruzione influisce su tanti comportamenti che riguardano la fecondità, la mortalità, ma anche la salute e le migrazioni.

Occorrerebbe, allora, garantire pari opportunità educative, con eguali condizioni di partenza. Giustamente lo dicono in tanti. Ma pochi aggiungono che occorrerebbe migliorare anche la qualità dell’educazione, oggi posta come su un piano inclinato: riforme e riformine di ogni colore politico hanno fatto sì che più si va avanti nel grado di istruzione e più la qualità si degrada.

In attesa dei necessari cambiamenti profondi, i demografi parlano di una “eccezionalità italiana”, un modo carino e delicato per alludere al fatto che ci troviamo davvero nei guai, più di tanti altri (tutti?) paesi dell’Unione Europea.  Calano le nascite, anche perché le madri sono di età sempre più avanzata, sicché è raro il secondo figlio e rarissimo il terzo; e anche perché le madri immigrate, inizialmente più prolifiche, si stanno allineando alla tendenza italiana. Pochi nascono, e dunque pochi potenziali genitori avranno figli in futuro, e così di seguito, lungo una tendenza che potrebbe essere irreversibile per chissà quanto tempo.

Ma la “trappola demografica” cattura anche altre dinamiche. Infatti, al calo delle nascite si accompagna l’aumento dei morti perché è sempre più numerosa la componente anziana della popolazione. Ad esempio, in Umbria – come l’AUR ha ben illustrato – l’indice di vecchiaia negli ultimi 10 anni è aumentato del 41% (un po’ più della tendenza nazionale). Oggi gli anziani (ultra-64enni) sono il 23% in Italia, ma l’Istat prevede che nel 2050 potrebbero arrivare al 35%.

Per non ridurre la popolazione, avremmo allora bisogno subito di più immigrati, in modo da riequilibrare la forte riduzione della nostra popolazione attiva; ciò gioverebbe molto anche al nostro rapporto debito/PIL, come di recente ha sottolineato il DEF (Documento di Economia e Finanza, proposto dal Governo al Parlamento). Purtroppo, però dal 2008 il numero degli stranieri è in decrescita e ciò costituisce una situazione “nefasta”, come ha denunciato anche la prestigiosa “Società Italiana di Statistica”.

Sul computo complessivo del decremento della popolazione va aggiunta pure l’emigrazione, cioè quella componente che lascia l’Italia e che in gran parte è costituita da giovani con un alto livello di istruzione. Dal 2012 in poi la tendenza cresce; e, senza seri interventi per il “rientro dei cervelli” (per esempio, incentivi fiscali), anche questa dinamica è destinata a permanere per un tempo indefinito.

Come si sostiene ormai da tante parti, questa situazione in futuro potrebbe colpire, con più forza di oggi, la previdenza sociale, il mercato del lavoro, l’assistenza sanitaria, la struttura dei consumi familiari (oltre agli altri effetti socioculturali che prima ho accennato). Ma rispondere a questa situazione non è agevole. Per esempio – lo afferma la sullodata associazione degli statistici – “le politiche familiari sono costose, non hanno un impatto immediato sul consenso politico e, soprattutto, hanno effetti solo nel lungo periodo, quando i nati di oggi saranno i genitori di domani”.

Insomma, anche la classe politica più lungimirante e i provvedimenti più efficaci avrebbero un esito determinante solo fra molti anni. Resta da decidere, con perspicacia, quali risultati immediati realizzare nel frattempo.