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Mauro Casavecchia
Agenzia Umbria Ricerche

Investire in cultura per conservare il futuro

19 Lug 2018
Tempo di lettura: 8 minuti

Luoghi, nonluoghi, carisma
Partirei da una domanda solo apparentemente retorica: l’Umbria è ancora un luogo? O meglio: in quale misura l’Umbria è ancora composta di luoghi?
Non si tratta di una domanda dalla risposta scontata perché per “luogo” non intendiamo

semplicemente un’area, uno spazio fisico: un luogo è uno spazio con un carattere distintivo, dotato di senso e carico di significati. Un luogo ha dunque, per definizione, una sua identità. In alcuni casi, in particolar modo per i luoghi naturali, questa identità può essere eterna e immutabile: pensiamo per esempio al deserto, dove la contemplazione di un orizzonte indefinito e di un cielo vastissimo e imponente richiama istintivamente l’idea di un ordine cosmico (e non è un caso che siano stati paesaggi del genere ad aver ispirato e accompagnato la nascita delle grandi religioni monoteiste). Oppure, per venire più vicino a noi, pensiamo ai luoghi mistici degli itinerari francescani, all’Eremo delle Carceri, al Santuario La Verna e a quanto essi possano comunicarci sulla profonda contiguità esistente tra lo spirito dei luoghi e l’animo umano.
In altri casi, invece, l’identità di un luogo tende a mutare nel tempo: è quanto succede con i luoghi artificiali e antropizzati, dove l’intervento dell’uomo produce inevitabilmente trasformazioni, le quali possono essere più o meno armoniche e rispettose della primordiale identità.
Il concetto del genius loci, lo spirito del luogo, derivato dall’antichità classica, esprime proprio questa caratteristica identitaria di un luogo, quasi una sua intrinseca volontà di preservare una determinata configurazione, che l’uomo dovrebbe limitarsi a identificare, rispettandola e assecondandola. È seguendo questa prospettiva che, nel corso della storia, la costruzione degli edifici tendeva ad assecondare le preesistenze, sovrapponendo elementi coerenti con quanto già presente. Si pensi ad esempio alle chiese costruite sopra templi più antichi, oppure si osservino le armoniose stratificazioni di stili architettonici nelle città di origine più antica (l’acropoli di Perugia è uno dei rari esempi in cui convivono felicemente, fianco a fianco, testimonianze etrusche, romane, medievali, rinascimentali, neoclassiche e così via).
Nell’architettura moderna, invece, soprattutto a partire dall’ultimo secolo, si comincia a intervenire in modo più spregiudicato e massiccio, con minore rispetto e in molti casi stravolgendo le identità esistenti dei luoghi. Nel migliore dei casi questa rottura di continuità fa sì che vengano a crearsi nuove identità, ma spesso il risultato è che si distruggono i caratteri peculiari dei luoghi senza riuscire a costruire una nuova identità, producendo così un senso di alienazione nel nuovo spazio.
Si può dire, dunque, che nella nostra epoca esista una tendenza generalizzata, in qualche misura, all’indebolimento dell’identità dei luoghi. È il fenomeno dei nonluoghi, spazi espressione della modernità – o della surmodernità, per dirla con Marc Augé – caratterizzati dall’assenza di identità, dal fatto di non favorire la relazionalità tra le persone, dal non avere una storia. Pensiamo ad esempio agli aeroporti, alle autostrade, ai grandi centri commerciali.
I nonluoghi hanno carisma? Se per carisma intendiamo la capacità di esercitare un ascendente, un fascino, una capacità attrattiva verso le persone, non è affatto scontato che i nonluoghi ne siano privi, anzi: un outlet, un franchising globalizzato, o una catena di fast food sono senz’altro attrattivi, in termini di numero di frequentatori, spesso più di un luogo storico. Il maggior centro commerciale degli Stati Uniti, il Mall of America, richiama oltre 40 milioni di visitatori ogni anno (molti dei quali vi entrano nel corso di un giro turistico), tanto che qualcuno ha osservato che lo si visita “con la stessa religiosa devozione con cui i Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori di azzardo a Las Vegas, i bambini a Disneyland”. Insomma, un nonluogo può essere vissuto anche in modo molto piacevole.
Se tuttavia intendiamo il carisma (o chàrisma, nell’etimologia greca) come un concetto più complesso, come quell’insieme di facoltà, di doti, di doni straordinari che la comunità riconosce in capo a una persona – qui, per estensione, a un territorio – e, soprattutto, che vengono utilizzati da quest’ultima a vantaggio della comunità, allora la risposta cambia. In questo senso, non c’è dubbio che siano i luoghi, con la loro stratificazione di memoria, di significati, con il loro spessore di senso a possedere maggior carisma, inteso come dono di attribuire identità, rafforzandola, alle comunità che li abitano. Le quali, d’altra parte, non abitano i nonluoghi, ma vi transitano semplicemente.

La leva culturale tra identità e sviluppo
Chiarite queste premesse, mi sembra di poter affermare che la nostra regione, forse più di altre, abbia offerto una certa resistenza all’invadenza dei nonluoghi nell’epoca attuale. Non che ne sia priva, naturalmente. Ma è innegabile che qui fatichi ad attecchire – per ragioni storiche, socioculturali e, non da ultimo, orografiche – quella proliferazione di strutture e infrastrutture artificiali costruite per la circolazione e per il consumo di massa che caratterizza altri territori. Nonostante l’importanza assunta dal settore delle costruzioni nel modello di sviluppo regionale per larghi tratti degli ultimi decenni e le conseguenti inevitabili frizioni rispetto alle esigenze di sostenibilità ambientale, le statistiche mostrano che il ritmo con cui asfalto e cemento, insediamenti abitativi, produttivi e commerciali, strade e infrastrutture continuano ad occupare lo spazio delle aree naturali e agricole risulta in Umbria un po’ meno frenetico rispetto alla media nazionale.
Il tradizionale claim promozionale dell’Umbria verde, insomma, costituisce senza dubbio un ancoraggio tuttora forte dell’identità regionale. Il paesaggio resta ancora un fattore di identificazione primario, sia per gli umbri sia per chi ci osserva dall’esterno dei confini regionali, anche a causa dell’indissolubile legame con la storia. Possiamo per questo fine prendere a prestito le parole di Raffaele Rossi, persuaso che “l’Umbria sia tutta storia e paesaggio, e che anche il paesaggio sia storia, creazione degli uomini, prodotto delle loro vicende, dei loro pensieri e del loro immaginario”. Ma c’è dell’altro: la capacità dei territori umbri di mantenere nel tempo la prerogativa di “luoghi”, oltre che dalla componente naturalistica deriva anche dalla vasta stratificazione sul territorio di tutti quegli elementi culturali sedimentati nel tempo, che potremmo riassumere nel binomio bellezza e cultura. Come già ricordato in occasioni precedenti, l’Umbria è una delle regioni che l’Istat classifica tra le terre della “Grande bellezza”, dove si incontrano una elevata densità di patrimonio storico, artistico e naturalistico e una ampia presenza di attività produttive basate sulla qualità e sull’eccellenza delle tipicità locali.
Diversamente da altre regioni, che possiedono straordinarie concentrazioni puntuali di beni culturali (pensiamo alle grandi città d’arte), l’Umbria è la regione in cui questo patrimonio culturale è maggiormente disseminato sul territorio: ogni pezzetto della nostra regione è in grado di vantare bellezze storiche, artistiche o naturalistiche. Insomma, sembra valere ancora ciò che affermava già negli anni Cinquanta Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia, e cioè che in Umbria, “con le sue millenarie infiltrazioni, l’arte ha saturato gli animi. Tutti qui vivono nell’arte, consapevoli o inconsapevoli. (…) Vi è nel popolo umbro un estetismo naturale, e per così dire endemico, che non sempre significa legame cosciente con le tradizioni”.
Come a dire che gli umbri sono talmente abituati alla bellezza da non farci nemmeno più caso. E questa è forse una delle cause per cui si dice che l’Umbria – così come l’Italia – è seduta sopra una ricchezza che non riesce a sfruttare appieno: siamo così assuefatti all’arte che ci circonda, all’armonia, alla bellezza, al buon vivere che non riusciamo a considerare questi elementi come asset, come entità suscettibili di valutazione economica su cui articolare un modello di sviluppo.
Così, proprio oggi che le politiche europee considerano sempre più creatività e cultura non solo come beni da tutelare in sé, ma come strumenti di crescita economica, suona oltremodo paradossale che ciò debba essere ricordato a un Paese come l’Italia.
Oltre a essere una componente fondamentale per l’identità dei luoghi e delle persone, infatti, la cultura svolge un ruolo determinante anche sul piano economico, almeno da un duplice punto di vista: per gli effetti diretti derivanti dall’economia della cultura – la gestione dei beni culturali, le industrie culturali, le imprese creative e tutta la loro filiera – e anche per i riflessi indiretti sul sistema produttivo generale.
La competitività si sposta dalle imprese ai territori, che per competere devono distinguersi: l’economia della conoscenza, lungi dall’appiattirle, enfatizza le differenze tra le aree geografiche, le quali hanno estremo bisogno di mantenere una propria riconoscibilità, una identità forte basata sul saper fare, sullo stile di vita, sulla reputazione di qualità e di eccellenza che nel tempo si costruiscono. Le singole imprese, per quanto forti e competitive, faticano nel lungo periodo a mantenere la loro proiezione internazionale se alle spalle non hanno un territorio altrettanto forte. E questa solidità si acquisisce proprio grazie al patrimonio culturale, specchio dell’identità territoriale.
Dunque, la leva culturale è in grado di produrre al tempo stesso sviluppo del capitale economico di un territorio, del capitale umano dei suoi abitanti, riqualificazione e rigenerazione urbana dei suoi luoghi, vitalità del suo patrimonio identitario tangibile e intangibile.

Invertire il disinvestimento in cultura
Eppure l’Italia, dall’alto del suo straordinario patrimonio artistico e della ricchissima eredità culturale e nonostante i più recenti interventi volti ad affermare la centralità della cultura come motore per il rilancio socio-economico dei territori, continua a spendere per attività culturali una quota di Pil decisamente inferiore rispetto alla media dei Paesi Ue. Per usare le parole dell’Agenzia per la Coesione Territoriale, “quello in cultura rimane il più grande disinvestimento settoriale che si sia avuto in Italia negli anni 2000, certamente influenzato dalle politiche di contrazione della spesa pubblica, che tuttavia nella cultura hanno pesato più che in tutti gli altri comparti”.
Anche in Umbria da questo punto di vista non possiamo sentirci sollevati: nel 2015 la spesa pubblica in conto capitale (per investimenti e trasferimenti) del Settore pubblico allargato per il capitolo “conoscenza, cultura e ricerca” pesa nella nostra regione per il 6,1% sul totale (nel Centro-Nord 6,7% e nel Mezzogiorno 7,5%). Tradotto in termini pro capite, la spesa in conto capitale (al netto delle partite finanziarie) in Umbria è scesa a 58 euro mentre nel periodo 2012-2014 ammontava in media a 81 euro.
Questo disinvestimento in cultura è il risultato di una manovra a tenaglia provocata dalle due posizioni contrapposte tra le quali oscilla da sempre il dibattito sulle politiche culturali in Italia: da un lato c’è chi afferma che “con la cultura non si mangia”, considerando implicitamente gli investimenti in cultura come un inutile costo; dall’altro lato c’è chi invece inneggia fideisticamente alla possibilità di valorizzazione dell’immenso patrimonio culturale di cui disponiamo, limitandosi a riproporre stancamente un modello di sfruttamento di tipo turistico-commerciale. Questo secondo atteggiamento, forse ancora più miope del primo, rischia di farci adagiare pigramente su una visione dello sviluppo locale secondo la quale il patrimonio artistico e culturale è in grado di produrre ricchezza quasi magicamente, per il solo fatto di esistere, senza un vero investimento. Si rischia cioè di ricadere nel vizio di considerare la cultura come un “giacimento” da sfruttare come una rendita, in una “visione petrolifera” della cultura. Tale approccio è uno dei presupposti principali responsabili della trasformazione – in gran parte già sopravvenuta in alcune città d’arte in Italia – da luoghi vivi, capaci non solo di conservare il patrimonio culturale ma anche di produrre nuova arte e cultura – e dunque innovazione – in una sorta di parchi tematici, dove ci si limita a gestire l’esistente.
Quello che ci serve è, invece, un uso dei beni culturali proiettato al futuro. La sfida è quella di trattare la cultura non come prodotto da vendere ma come risorsa da rigenerare a da rimettere in circolo, incoraggiando la produzione artistica e l’innovazione. D’altra parte, non è forse questo che è stato fatto nei secoli precedenti per accumulare quel capitale di beni culturali che oggi abbiamo a disposizione?

Un futuro da conservare
Una dimostrazione lampante, ancorché dolorosa, di questa necessità la si può riscontrare nei paesi dell’Appennino recentemente colpiti dal sisma. Qui il processo di ricostruzione ha in qualche modo obbligato le comunità locali a confrontarsi in modo esplicito sulle proprie radici culturali, su quali elementi del passato ricostruire per traghettarli nel futuro. Perché è evidente che il patrimonio culturale di una comunità non può essere censito con criteri “catastali” ad opera di qualche ufficio ministeriale: l’inventario può essere fatto solamente a partire dall’immaginario e dalla memoria storica delle persone che compongono la comunità locale. Il patrimonio è ciò che da loro viene riconosciuto come un valore.
Per scendere nel concreto, gli affreschi e le tavole della chiesa locale non rappresentano solo reliquie da proteggere, che possono essere indifferentemente collocate altrove in un museo, ma contribuiscono a definire l’identità della popolazione locale.
Dunque è opportuno mantenerle sul territorio, non tanto come elemento di attrazione turistica ma soprattutto perché solo in questo modo possono continuare ad aiutare la comunità locale a rimanere se stessa. Anche perché il vero valore attrattivo di un territorio, anche da un punto di vista turistico, non risiede tanto nella presenza di un particolare bene culturale, quanto nel riconoscimento della capacità di preservare la propria autenticità.
Ho seguito un po’ il lavoro che è stato fatto con le popolazioni locali nel versante appenninico marchigiano. In quei luoghi occorreva decidere quali beni culturali, materiali e immateriali, conservare e come conservarli: all’interno del sistema di valori culturali distrutti dal sisma le comunità sono state chiamate a distinguere ciò che aveva senso recuperare perché utile per il futuro da ciò che poteva più semplicemente rimanere nella memoria. È stato un esercizio molto coinvolgente e intenso di partecipazione e di condivisione per la cittadinanza.
In quei paesi c’è voluto un terremoto per innescare questa dinamica, ma sarebbe opportuno che anche noi, come intera comunità regionale e nazionale, prendessimo spunto da questa esperienza e intraprendessimo un percorso di questo genere. Forse che una dozzina di punti di Pil persi nell’ultimo decennio non sono un evento sufficientemente catastrofico per indurci a interrogarci su come riattrezzarsi per il futuro e su come la cultura, la bellezza, la nostra identità si possano mettere al centro di un nuovo progetto per rivitalizzare il nostro sistema sociale ed economico? La ricostruzione non riguarda solo muri e pietre, ma significa soprattutto recuperare il passato per poter guardare al futuro. Ecco dunque che acquista senso l’idea che restituire nuova vita al nostro patrimonio culturale, non limitandosi alla sua tutela, consente di conservare il futuro.

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