Focus
Giuseppe Coco
Lavoro e mutazioni
Da qualche anno stiamo facendo i conti con una rivoluzione tecnologica che sta trasformando il lavoro tradizionalmente inteso. L’era dei bit, avanzando, sovrasta l’era degli atomi e provoca una mutazione sui lavori e sui lavoratori.
L’agricoltura, l’artigianato, il commercio sono stati il fulcro intorno al quale si è costruito il sistema sociale fino alla metà del 1700. Con la rivoluzione industriale avviene una rottura secca rispetto al passato: nasce la società moderna che va avanti pressoché indisturbata fino alla Seconda guerra mondiale. Tra il 1950/60 inizia a prendere forma l’era post-industriale. Dagli anni Settanta i perni del tutto diventano l’elettronica, prima, e l’informatica, poi, che nella sostanza cambiano radicalmente i valori e il modo di pensare acquisiti fino a quel momento. Oggi si sta per scrivere una ulteriore nuova pagina, nata molto probabilmente il 9 gennaio 2007 quando Steve Jobs mostrò per la prima volta un oggetto (l’iPhone) che da quel momento avrebbe cambiato il nostro modo di vivere.
In questo scenario molti economisti e sociologi ritengono che nei Paesi avanzati entro una ventina di anni possa concretizzarsi una realtà in cui solo il 20% dei lavori apparterrà alla sfera del mondo operaio; il 30% a quello impiegatizio; il 50%, il pezzo più grosso della torta, a quello creativo ovvero alla produzione immateriale, di emozioni e di immagini che avranno come protagonisti, giusto per fare qualche esempio: i big data specialist, gli influencer strategist, i retail designer.
Abbiamo attraversato la soglia di un “mondo nuovo” che apre non pochi interrogativi, come ad esempio: le singole realtà – in particolare le regioni piccole dove le dinamiche del Pil, l’andamento demografico e l’invecchiamento fanno registrare dati preoccupanti – sapranno stare al passo coi tempi?
Dare una risposta non è facile. Però può tornare utile cimentarsi in una simulazione molto semplice, banale se si vuole. Prendiamo l’Umbria – ma è solo uno degli esempi possibili – e con la macchina del tempo portiamola nel 2030. Ipotizziamo che gli occupati siano numericamente identici a quelli del 2018 che, stando ai dati Istat, sono pari a 355.000. A questo punto ripartiamo gli occupati sulla base dell’ipotesi riportata all’inizio ed ecco prendere vita il grafico sottostante.
Osservando le tre colonnine azzurre la cosa che non possiamo non chiederci è: l’Umbria, per come la conosciamo, può essere in grado di offrire, in un futuro ormai prossimo, un’occupazione a 177.500 persone nell’ambito dei lavori creativi?
Chiaramente l’ipotesi iniziale su cui si è costruita la presente riflessione potrebbe non rivelarsi azzeccata. Non sarebbe la prima volta. Tuttavia, viene difficile immaginare il lavoro di domani non legato prevalentemente alla sfera della creatività.
Noi tutti abbiamo obblighi rispetto al passato e sarebbe un errore ignorarlo o peggio rinnegarlo. Ma, al tempo stesso, abbiamo obblighi anche verso il futuro e quindi dobbiamo cercare di non essere spettatori del nostro destino. Se il domani non lo si prepara oggi si corre il rischio di subirlo. Diciamocelo con franchezza: molte regioni italiane (in particolare del Centro-Sud) si presentano fragili rispetto alle mutazioni del lavoro. E uno dei fattori che le ha rese tali è stato il non aver investito abbastanza in Ricerca e Sviluppo. I dati, su questo fronte, sono impietosi e ci dicono che molte delle nostre aree territoriali rappresentano il fanalino di coda dell’Europa. Il fatto è che chi non sta al passo con i tempi corre il rischio di stare su un binario morto.
Per Ogburn: “Il nostro modo di pensare tende ad evolvere più lentamente del nostro mondo materiale”.