Focus

  1. Home
  2. /
  3. Focus
  4. /
  5. Le cause del declino...
Roberto Segatori
Già Ordinario di Sociologia dei fenomeni politici e docente di Governance e politiche pubbliche all’Università di Perugia

Le cause del declino demografico

17 Mag 2023
Tempo di lettura: 4 minuti

Le cause della crisi demografica che sta caratterizzando l’Italia, e al suo interno l’Umbria, si collocano a più livelli e riguardano aspetti diversi.

L’equilibrio demografico è, com’è noto, il risultato di due saldi: quello cosiddetto naturale e quello migratorio. Circa il primo saldo, a livello mondiale il calo non colpisce i paesi più poveri (specie quelli africani non coinvolti in guerre intestine) né quelli più ricchi (in Europa, Francia e Svezia). In Italia, invece, il tasso di natalità (rapporto nati/popolazione) risulta nel 2021 il più basso tra i 27 paesi della Ue con 6,8 nati ogni mille residenti, rispetto alla media europea di 9,1. Inoltre, il nostro paese, insieme a Spagna e a Malta, si conferma tra quelli meno fecondi con 1,25 figli per donna, peraltro come risultato medio ponderato di 1,18 figli di italiane e 1,87 figli di straniere. In Umbria, sempre nel 2021, il numero medio di figli per donna, per tutte le residenti, è stato di 1,18.

Su questa tendenza, che rischia di diventare strutturale, incidono processi culturali, fattori politici, dinamiche socioeconomiche, nonché i “climi percettivi” che alimentano le visioni del futuro. I processi culturali hanno in primo luogo a che fare con la tematica dell’identità e dei ruoli sociali attribuiti alle donne. Se nelle società tradizionali (e qui tornano in causa alcune comunità africane e paesi a forte connotazione islamica) resiste, in condizioni non sempre pacifiche, il ruolo subalterno e domestico delle donne, nel resto del mondo, e specie in Europa, le lotte femminili per la parità hanno ormai permesso la costruzione per le donne di identità performative non diverse da quelle maschili, senza negare la differenza di genere.

Il che significa che le donne percorrono o almeno cercano di percorrere le stesse carriere professionali degli uomini. Ed è su queste esperienze che si gioca per loro (ma ovviamente non solo per loro) la possibilità di tenere insieme lavoro (professione) e maternità.

“L’Italia non è un paese per giovani… e neppure per vecchi”

Il quadro culturale si traduce poi nelle scelte che vengono compiute in chiave politica e si completa negli atteggiamenti socialmente diffusi di maggiore o minore sensibilità verso la tutela della maternità tra gli attori principali della scena economica (imprenditori in primis).

Gli indicatori che danno conto della volontà del legislatore in merito riguardano la copertura della maternità e la diffusione di asili nido. In Italia, anche nel 2023, le neomamme lavoratrici dipendenti hanno diritto a un periodo minimo di 5 mesi a cavallo del parto (o di ingresso in famiglia del bambino adottato o affidato) con un’indennità pari all’80% della retribuzione a carico dell’Inps. I padri hanno diritto a 10 giorni di congedo obbligatorio retribuito. In Francia, la riforma Raffarin ha introdotto un premio alla nascita pagato al settimo mese di gravidanza a tutte le donne residenti (1.004 euro nel 2022) o per adozione (2.008 euro). Incentivi monetari ulteriori accompagnano i genitori che decidono di assistere i bambini almeno fino a 5 anni. In Svezia, ogni genitore ha diritto a 12 mesi di congedo da condividere, ma sono obbligatori almeno due mesi a testa sia per la madre che per il padre.

Quanto agli asili nido, va ricordato che circa vent’anni fa l’Ue stabilì a Barcellona l’obiettivo di assicurare nei 27 paesi almeno 33 posti ogni 100 bambini sotto i 3 anni (e 90 posti per i bambini da 3 a 5 anni), salvo poi alzare di recente la soglia per i primi a 45 e per i secondi a 96. Ebbene, ancora oggi, mentre l’Italia garantisce ai bambini da 0 a 3 anni un’offerta che tocca poco più del 27% di essi, la Danimarca ne raggiunge il 70%, la Svezia il 56%, la Francia il 40%. In Italia, rispetto a regioni più virtuose (in genere del centro-nord), pesa la scarsità di offerta delle regioni meridionali. L’Umbria, grazie alle politiche per l’infanzia perseguite da molti decenni, è in grado di ospitare nei nidi tra asili pubblici e privati (ovviamente più costosi) il 44% dei bambini (Osservatorio Conibambini.org).

Sull’offerta degli asili nido in Italia pende però una specie di spada di Damocle. Come ha osservato il 10 maggio scorso su la Repubblica Linda Laura Sabbadini (Dirigente generale dell’Istat), il nostro paese rischia di perdere per colpevole ritardo il finanziamento europeo del PNRR per l’obiettivo (previsto dal Comitato Colao) di costruire asili nido al fine di raggiungere il 60% dei bambini.

“L’equilibrio demografico è il risultato di due saldi: naturale e migratorio”

In queste condizioni – e con visioni del futuro tanto precarie (prima il covid, poi la guerra in Ucraina, infine un trend economico che si annuncia recessivo) – con quale spirito è ipotizzabile che una coppia di giovani affronti serenamente la prospettiva di avere figli?

La seconda gamba dell’andamento demografico di un paese è costituita dalle dinamiche migratorie. Qui l’Italia, a differenza di altri Stati come la Germania, che ha sempre privilegiato la programmazione degli ingressi soprattutto in funzione del mercato del lavoro interno (ieri i turchi, oggi i siriani), ha declinato le politiche dell’immigrazione essenzialmente come politiche di sicurezza (si veda ultimamente il cosiddetto Decreto Cutro). I risultati hanno condotto non solo a un aumento degli immigrati clandestini circolanti nella penisola, ma soprattutto alla paralisi delle possibilità di utilizzo di tutti coloro che sono in attesa del perfezionamento delle loro pratiche di riconoscimento e stabilizzazione presso le prefetture (si pensi ai richiedenti asilo e non solo), con notevoli perdite di tempo e di opportunità di impiego.

L’Umbria, che ha una percentuale di immigrati sulla popolazione superiore a quella dell’Italia (10,7% rispetto all’8,8% – dati 2021), registra però in termini assoluti un calo della loro presenza, scesa tra il 2018 e il 2021 da 92.827 a 91.658 (evidentemente scoraggiati anch’essi). Così, mentre si fa polemica sugli immigrati, le associazioni delle imprese della regione (che tra il 2011 e il 2021 ha perso circa 50mila abitanti) continuano a lamentare una grave carenza di manodopera nei tre settori considerati tipici dell’edilizia, del turismo (alberghi e ristoranti) e dell’agricoltura (vigne e cantine, uliveti e mulini).

Alla luce di quanto precede, per l’Italia (ma anche per l’Umbria) si dovrà aggiornare la massima “non è un paese per giovani”, con l’aggiunta che “non è neppure (per prevedibili problemi di sostenibilità pensionistica) un paese per vecchi”.