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Giuseppe Coco
Agenzia Umbria Ricerche

Le Regioni in altalena

28 Dic 2018
Tempo di lettura: 13 minuti

Capire dove sono cambiate e dove stanno cambiando le Regioni non è un’operazione facile. Popper ci ha insegnato che la scienza non è un sistema di asserzioni certe stabilite una volta per tutte, come non è neppure un sistema che avanza verso uno stato definitivo e incontrovertibile. Il filosofo austriaco ci ha insegnato che la scienza e gli scienziati non possono pretendere di avere la certezza della ragione.

L’attualità ci dice che negli ultimi anni le Regioni hanno giocato un ruolo meno strategico di quello che ci si sarebbe potuti aspettare all’inizio degli anni Duemila, quando in molti erano convinti che il volto bello, nuovo e fresco dell’assetto statale poteva e doveva essere rappresentato dalle Entità regionali.

Con gli anni della crisi, senza una vera riflessione sull’argomento, le azioni dei governi che si sono succeduti hanno tolto ossigeno e spazio alle

Regioni. Si è preferito di più puntare su una dimensione neo-centralista del Paese, anche a costo di sembrare non in sintonia rispetto agli obiettivi base dell’Unione Europea (l’Europa delle Regioni).

Sta di fatto, però, che la consacrazione ufficiale e formale di un nuovo centralismo non c’è stata in quanto, il 4 dicembre 2016, la maggioranza degli italiani ha in modo inequivocabile respinto la proposta di riforma costituzionale Renzi-Boschi, che conteneva un sostanziale spostamento di molte funzioni dalla periferia al centro. La virata verso un neocentralismo, dove sia il controllo delle risorse finanziarie pubbliche e sia le competenze legislative venivano principalmente detenute dallo stato centrale, è sfumata lasciando sulla scena la precedente riforma del Titolo V del 2001 che, come ben sappiamo, rappresentava il primo passo per uno “Stato a trazione regionale”.

Nelle pagine che seguono daremo uno sguardo, seppur sintetico, alla trasformazione del regionalismo italiano dal 1990 ai nostri giorni, con il grande dubbio finale di cosa ne rimanga realmente sul tappeto dopo il referendum di dicembre.

Il regionalismo italiano tra il 1990 e il 2016

Prima degli anni Settanta si parlava di regionalismo senza regioni; nel periodo compreso tra il 1970 e il 1990 di Regioni senza regionalismo e bisogna aspettare il 1990 per avere un’inversione di tendenza dove le Regioni hanno via via conquistato un ruolo sempre più importante.

La storia delle istituzioni ci dice che all’inizio degli anni Novanta prese il via un vero e proprio processo di devoluzione a Costituzione invariata: in particolare con la legge n. 59 del 1997 e con il Dlgs n. 112 del 1998. Detto in altri termini si avviò un vero e proprio federalismo amministrativo.

Da questo momento, la questione regionale monopolizzerà il dibattito nazionale tanto che la stagione riformatrice avviata con le leggi Bassanini porterà all’approvazione – in un clima molto controverso – delle ben note leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3 del 2001, le quali, introducendo significativi elementi di novità per il regionalismo italiano, hanno ridisegnato secondo una più pregnante logica autonomistica l’assetto dei rapporti Stato-Regioni[1]. [1] Michela Michetti, “Le Regioni nel Dibattito Nazionale” in Rapporto sulle Regioni in Italia 2012, Issirfa, Ed. 2013, pp. 371-383.

Era il periodo dell’avanzata della globalizzazione e del Trattato di Maastricht, che ponevano problematiche nuove incoraggiando un riassetto istituzionale attraverso un forte impulso alla diffusione di forme di governo multilivello delle singole aree territoriali.

Nel 2001, con la riforma del Titolo V, ci fu una vera e propria svolta e le Regioni si videro assegnare un ruolo di primissimo piano nel governo dei territori. Il nuovo articolo 117 della Costituzione ampliava, dopo decenni di attese da parte di molti, le competenze legislative regionali e ridisegnava un nuovo equilibrio dei poteri tra Stato e Regioni. Basta un semplice colpo d’occhio al “vecchio” e al “nuovo” testo dell’articolo 117 della Carta per capire che ci fu una svolta profonda nel paradigma istituzionale.

Articolo 117 della Costituzione risultante dalle modifiche apportate dalle leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3 del 2001

 

La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:

• politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea;

• immigrazione;

• rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;

• difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi; moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie;

• organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo; ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali;

• ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; cittadinanza, stato civile e anagrafi; giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa; determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;

• norme generali sull’istruzione; previdenza sociale;

• legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane; dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale;

• pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza.

La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite. Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive. La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni. Nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato.

Articolo 117 della Costituzione vigente prima delle riforme costituzionali del 1999 e del 2001

 

La Regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni:

• ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla Regione;

• circoscrizioni comunali;

• polizia locale urbana e rurale;

• fiere e mercati;

• beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria e ospedaliera;

• istruzione artigiana e professionale e assistenza scolastica;

• musei e biblioteche di enti locali;

• urbanistica;

• turismo ed industria alberghiera;

• tramvie e linee automobilistiche d’interesse regionale;

• viabilità, acquedotti e lavori pubblici di interesse regionale;

• navigazione e porti lacuali;

• acque minerali e termali;

• cave e torbiere;

• caccia;

• pesca nelle acque interne;

• agricoltura e foreste;

• artigianato. Altre materie indicate da leggi costituzionali.

Le leggi della Repubblica possono demandare alla Regione il potere di emanare norme per la loro attuazione.

Ogni giorno dopo il 18 ottobre 2001, data di approvazione della legge costituzionale n. 3, si candidava ad essere un giorno buono per far nascere in Italia un vero e ben fatto federalismo. Ma, tutti sappiamo che non è andata così e lo “Stato a trazione regionale”, o se si preferisce il “Regionalismo senza Stato”, non hanno visto la luce. L’ultimo tassello da conquistare era il federalismo fiscale che avrebbe dovuto/potuto segnare la svolta decisiva rispetto al passato. Svolta che non si è concretizzata dal momento in cui la legge 42/2009, che doveva essere il punto di rottura e di innovazione del sistema, di fatto è arrivata troppo tardi in quanto già indebolita dai primi veri effetti della crisi della crisi del 2008.

Dal 2007 in poi, più che la strada del federalismo, si è percorsa quella del neocentralismo: i Governi che si sono succeduti hanno lavorato su forti tagli della spesa pubblica, facendo ricorso ad una legislazione “emergenziale”, molto impattanti sui portafogli delle Regioni e degli enti locali e quindi sulla loro capacità di spesa e di autonomia.

Sotto un profilo più formale, visto che non c’è stato negli anni della crisi un cambiamento della Costituzione, l’operazione è stata resa possibile anche dall’atteggiamento della Corte costituzionale che (a Costituzione invariata) ha di fatto “ammorbidito” con i suoi pronunciamenti l’art. 117 della Carta, così come modificato nel 2001, attraverso una serie di accorgimenti, tra cui il “criterio di prevalenza”, la “chiamata in sussidiarietà”, le “materie onnivore”, le “materie trasversali”. Il risultato è stato che la giurisprudenza costituzionale ha rafforzato il controllo finanziario nelle mani del Governo centrale[1]. Ma, non è proprio chiarissimo quanto questo neocentralismo sia stato figlio di scelte politiche e quanto di necessità che non hanno lasciato a disposizione molte strade da percorrere. In linea generale, noi sappiamo che la maggior parte degli economisti, dei politologi, dei sociologi e degli storici, concordano nel ritenere corretto che nei periodi di crisi i sistemi di governo a più livelli possano far ricorso ad una temporanea ricentralizzazione delle competenze e delle risorse finanziarie. Quindi, sulla base di quanto appena detto, l’Italia non ha rappresentato nessuna eccezione, anzi potrebbe aver fatto molto bene a percorrere questa strada. Certo, nel Paese ci sono tanti nostalgici di uno Stato centralista, sempre pronti ad affermare le virtù di quell’approccio e forse sempre speranzosi di farlo rivivere a scapito di forme di governo multilivello.

Politiche neo-centraliste ed effetti sulle Regioni: il periodo della crisi

 Nel periodo della crisi in Italia c’è stata un’avanzata del neocentralismo che ha agito su un ridimensionamento delle risorse a disposizione delle Regioni che, sotto certi aspetti, è andato ad intaccare la possibilità di garantire sempre i compiti costituzionalmente previsti.

In questa fase il regionalismo italiano non è stato considerato come un elemento intoccabile del sistema delle politiche pubbliche volte alla promozione dei territori, e più in generale non si è scommesso su di esso sia per la competitività del Paese e sia per ciò che attiene ai servizi pubblici.

Se la politica di definanziamento compiuta in tutti gli anni della crisi dovesse ostinatamente continuare, per mantenere pressoché intatta la spesa degli apparati centrali, il declino del regionalismo sarebbe irreversibile e condurrebbe a un centralismo rispetto al quale le regioni potrebbero avere solo una funzione marginale con un deperimento della stessa forma di “stato regionale” voluta dal costituente del 1947.

Il rischio è ben chiaro: se si tagliano i soldi alle Regioni di fatto surrettiziamente si mette in piedi una riforma costituzionale dove vengono svuotati di senso questi Enti che, pur mantenendo la potestà legislativa, non possono esercitarla in modo compiutissimo in quanto privi di risorse libere che sono fondamentali per fare leggi munite di gambe per camminare.

Spostando per un attimo la riflessione sulle politiche dell’Europa, col neocentralismo italiano figlio della crisi si è registrata una contraddizione di fondo rispetto a quanto in ogni occasione l’Unione professa, ovvero che per una piena realizzazione del processo di integrazione europea è fondamentale un’articolazione di tipo regionale (federale) degli stati membri[3]. Per l’UE la governance multilivello è centrale e serve per ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie aree e limitare al minimo i rischi di frammentazione. L’Italia della crisi, a conti fatti, ha trascurato questo aspetto della politica comunitaria ed anzi a volte è sembrata andare in senso opposto.

Con il vento neo-centralista si è riaperta anche un’altra questione che periodicamente in Italia viene fuori e cioè quella del dimensionamento delle Regioni. Gli studi che ruotano intorno a questo argomento sono davvero tanti e per tutti i gusti e tutti i partiti. Se ci limitiamo solo agli anni più vicini a noi, sul tavolo della politica c’è (stato…) il tema delle macroregioni lanciato dal Presidente della Toscana Enrico Rossi che in un volume dal titolo evocativo, L’Italia Centrata, ripensare la geometria dei territori (2016), avanza una suggestione sul possibile “accorpamento” di Umbria e Marche proprio con la Toscana.

Per onor di cronaca, come direbbe un giornalista (sic!), l’operazione è più facile a dirsi che a farsi. Rivedere i confini delle Regioni è una faccenda molto delicata e che può presentare non poche problematiche. In ordine sparso possiamo dire che:

  1. a) occorrerebbe individuare un criterio per determinare la nuova perimetrazione regionale, nella consapevolezza che la compensazione territoriale non è mai cosa agevole e può riproporre vecchi divari creduti sopiti;
  2. b) i confini territoriali una volta ridefiniti vanno riconsiderati statici e questo può comportare nel giro di poco tempo la riproposizione della necessità di una nuova revisione;
  3. c) dar vita alle macroregioni implicherebbe modificare tutta un’altra serie di norme come, ad esempio, quelle per l’elezione del Presidente della Repubblica, ecc.;
  4. d) le macroregioni per essere efficienti dovrebbero diventare l’asset amministrativo centrale del Paese e viene difficile pensare che oggi il nostro Stato centrale possa con nonchalance ridurre la sua attività, in pratica, alle sole politiche di carattere nazionale.

Come emerge anche da questo scarno elenco, le variabili da tenere in considerazione in un processo di costituzione di macroregioni sono tante e richiedono grande consapevolezza dei molti problemi a cui si va incontro.

 

Le esperienze della riforma delle Province e dell’attuazione della Legge Delrio hanno dimostrato la complessità dei processi di rideterminazione dei confini degli enti territoriali; difficoltà, queste, che si riproporrebbero ampliate nel caso delle Regioni.

 

Sicuramente per la creazione di macroregioni sarebbe opportuno un percorso a step, avvalendosi in prima battuta di forme di cooperazione orizzontale volte a stimolare la nascita di possibili nuovi riassetti istituzionali.

In punta di diritto la nostra Costituzione prevede sostanzialmente due strade per realizzare nuovi dimensionamenti regionali:

  1. A) costruire ambiti territoriali sovra-regionali attraverso forme di collaborazione orizzontale tra Regioni.

Il punto di partenza di questo approccio consiste nel prendere atto delle asimmetrie territoriali venutesi a creare negli anni e dell’opportunità di ottimizzare le competenze per il tramite dell’art. 117, comma 8, della Costituzione.

L’ipotesi collaborazione orizzontale è interessante e potrebbe dare buoni risultati in quanto è flessibile. Sotto un profilo più operativo, sarebbe opportuno costruire piani strategici interregionali attenti alle interdipendenze naturali, economiche e infrastrutturali delle Regioni interessate. Il ruolo dello Stato centrale dovrebbe essere quello di favorire il processo collaborativo.

  1. B) Ridisegnare i confini delle Regioni riducendone il numero: macroregioni.

L’ottimizzazione dei territori contigui e omogenei più grandi significherebbe far nascere nel nostro ordinamento le macroregioni. Il primo comma dell’art. 132 della Costituzione ci dice:

 

Si può con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali, disporre la fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione d’abitanti, quando ne facciano richiesta tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata con referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse.

 

Il fatto con cui fare i conti è che i territori in genere mal digeriscono le operazioni di fusione, in quanto negli anni, più di quello che a volte non ne siamo consapevoli, le identità regionali si sono consolidate e questo renderebbe la vita difficile a qualsiasi tipo di riassetto territoriale. Il regionalismo dalle sue origini ad oggi ha cambiato più volte pelle ma sicuramente non ha mancato l’obiettivo di irrobustire le singole comunità regionali come corpi con una loro fisionomia ben precisa.

Quale futuro per il regionalismo italiano dopo il referendum del 4 dicembre 2016

La crisi di questi anni, come abbiamo visto nel precedente paragrafo, ha aperto uno scenario dove si è rimesso in discussione un po’ tutto, compreso l’assetto istituzionale del Paese. Cosa modificare o cosa non modificare, direttamente o indirettamente, ha trovato sicuramente una sua configurazione organica nel progetto di riforma costituzionale Boschi-Renzi sottoposto a votazione referendaria lo scorso dicembre. Di Regioni nella proposta non se ne parlava direttamente mentre l’operazione, e basta dare un’occhiata ad alcuni articoli del testo per rendersene velocemente conto, avrebbe inciso molto sul loro agire, sulla loro autonomia e sulla loro fisionomia a tutto vantaggio dell’amministrazione centrale dello Stato.

Il tentativo di riforma costituzionale molto probabilmente era solo l’anticamera ad un ripensamento generale di tutti gli assetti territoriali che per giunta erano, per quanto riguarda alcuni “pezzi”, già stati sottoposti a modifiche con la cosiddetta “legge Delrio” – nonostante questa fosse solo una legge di fascia ordinaria, con tutti i limiti annessi e connessi. Nella sostanza, però, cosa sarebbe avvenuto in caso di vittoria del “” oggi non lo possiamo sapere, mentre sappiamo che con la vittoria del “No” al referendum del 4 dicembre 2016 la svolta “neo centralista” dell’Italia non c’è stata e il disegno costituzionale in vigore rimane quello del 2001 che prevede un’ampia autonomia delle Regioni, una loro partecipazione alla politica economica del Paese e, fatto non secondario, il federalismo fiscale. Poi sappiamo anche che non sono state mai risolte le questioni riguardanti il raccordo delle funzioni tra Stato e Regioni, ed in particolare ciò che concerne le competenze legislative. Rispetto a quest’ultima faccenda Mangiameli scrive:

[…] la possibilità di un raccordo inerente alla funzione legislativa per mezzo delle conferenze non appare più sostenibile, non fosse altro per la circostanza che questa realizza un raccordo a valle dell’esercizio della funzione legislativa e tra gli esecutivi.

In questa situazione l’attuazione di quanto previsto dall’articolo 11 [L. C. n.3 del 2001], con “la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali”, resta la via migliore per dare vita a un coordinamento delle funzioni legislative, proprio perché la collaborazione interviene direttamente sulla formazione dei principi che riguardano la competenza concorrente.

Come muoversi in questo contesto da adesso in avanti non è chiaro a nessuno. Anzi, sembra che ci troviamo in un guado dal quale non sappiamo bene come venirne fuori.

Lo “Stato con una tendenza a trazione regionale” non è stato archiviato da ben due referendum – mi riferisco anche a quello del 2006 proposto da Berlusconi, oltre che all’ultimo del 2016.

A stretto giro non sembra percorribile un’ipotesi di archiviazione “per strade formali” del modello regionalista nostrano figlio della riforma costituzionale del 2001. Gli italiani, direttamente o indirettamente, in modo consapevole o inconsapevole, ognuno la pensi come gli pare, di fatto si sono pronunciati.

Sotto un profilo più generale sono diversi i segnali che ci dicono che l’attuale regionalismo non ha compiuto a pieno, però, certi suoi percorsi di maturazione. Se da una parte la macchina dello Stato centrale sembra appesantita e bisognosa di un ammodernamento, dall’altra non si può affermare che le Regioni dal 1970 ad oggi siano diventate degli Enti sempre capaci di stare al passo coi tempi e portatori di una filosofia innovatrice in grado di dare l’esempio per efficientare l’intero sistema Paese. La sensazione è che le Regioni non hanno raggiunto – mi si consenta un linguaggio figlio dei tempi – ancora una loro “confort zone” e sembrano sedute sopra un’altalena che va un po’ su e un po’ giù.

Riferimenti bibliografici

Agenzia Umbria Ricerche

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Per un’ampia ed attenta analisi si veda Stelio Mangiameli e Giulia Maria Napolitano, “Regioni e Regionalismo nella prospettiva delle riforme”, in Rapporto sulle Regioni in Italia 2015, Issirfa, ed. 2016, pp. 1-7.

Stelio Mangiameli, “Dove vanno le Regioni?”, in Rapporto sulle Regioni in Italia 2015, Issirfa, ed. 2016, pp. 367-389.

Si veda a tal proposito la recente “Carta della Governance Multilivello in Europa” del 3 aprile 2014.

Stelio Mangiameli, “Dove vanno le Regioni?”, in Rapporto sulle Regioni in Italia 2015, Issirfa, ed. 2016, pp. 367-389.

La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni”.

A. Sterpa, “Quali macroregioni e con quale Costituzione?” in federalismi.it, 2015.

Mangiameli S., “Il regionalismo italiano dopo il referendum del 4 dicembre 2016”, articolo pubblicato sul sito web dell’ISSIRFA, www.issirfa.cnr.it/editoriale.html. anno 2017.

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