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Elisabetta Tondini
Agenzia Umbria Ricerche

L’Umbria nell’Italia centrale

2 Ott 2018
Tempo di lettura: 4 minuti

Non è soltanto per motivi di prossimità geografica che le analisi sullo stato dell’economia umbra vengono condotte tradizionalmente in comparazione con Toscana e Marche. La ragione più profonda è da ricercare nel fatto che per lungo tempo l’Umbria ha condiviso con le due regioni limitrofe caratteristiche strutturali e modalità di sviluppo per molti aspetti assimilabili. E, seppure con gli anni il corso dei fatti abbia differenziato la storia economica di Umbria, Toscana e Marche, questa trascorsa matrice comune rende ancora significativo un approccio analitico comparato, utile per rintracciarne similarità e difformità, convergenze e divergenze, vecchie e nuove. Nell’ultimo quarto di secolo il raffronto tra le regioni dell’Italia centrale è stato più volte oggetto di interesse specifico, in concomitanza di reiterate riflessioni sulla necessità di analizzare motivazioni, opportunità, effetti di accorpamenti sovra-regionali, nella consapevolezza che il senso di fusioni territoriali debba poggiare su affinità che vadano oltre la mera vicinanza geografica.
Le tre regioni, insieme alle altre dell’area Nord-Est-Centro, durante gli anni Settanta e Ottanta sono state protagoniste di un modello di industrializzazione diffusa che ha poggiato la sua fortuna sulla interazione delle risorse locali: il proliferare di imprese di piccole dimensioni fortemente legate al territorio ha potuto trarre linfa vitale da un capitale sociale non facilmente rintracciabile altrove, cosicché i benefici effetti della progressiva crescita produttiva hanno imperniato anche il substrato sociale, mantenuto l’equilibrio fra città e campagna, garantito uno sviluppo pervasivo. Un proficuo connubio tra economia e società e un forte radicamento territoriale hanno ispirato così la evocativa definizione di industrializzazione senza fratture, quella che ha forgiato lo sviluppo della Terza Italia e che si è rivelata una valida alternativa al modello fordista della grande impresa entrato profondamente in crisi negli anni Settanta. “Nelle regioni dell’Italia centrale, il tipo di sviluppo che è avvenuto, molto incentrato su piccole imprese e piccole città, ha consentito un buon equilibrio tra dinamismo economico e qualità della vita” (Irpet – Regione Toscana 2009, p. 12): un’eredità di cui Toscana, Marche, Umbria hanno beneficiato fino agli anni più recenti, come attestano le graduatorie sul grado di benessere delle regioni italiane. Soprattutto per quegli anni e per quelle regioni il contesto locale – quel certo mix di fattori ambientali tipici di aree caratterizzate da un ricco capitale sociale – è stato senza dubbio l’elemento che ha saputo forgiare uno sviluppo territorialmente radicato. Lo stretto nesso economia-territorio ha dato vita a una delle esperienze più emblematiche della storia economica italiana: si pensi al forte potere propulsivo del legame tra imprese e luoghi generato dalle realtà distrettuali su cui si è plasmata l’industria toscana e soprattutto quella delle Marche (la realtà italiana ancora oggi con la massima concentrazione di distretti industriali). E si pensi anche a quella parte di Umbria non interessata da insediamenti industriali tipici del Nord Ovest italiano ove la proliferazione dell’industria leggera, che pure non ha mai assunto i caratteri distrettuali riscontrabili altrove, ha saputo garantire uno sviluppo pervasivo. Un periodo felice, culminato per l’Umbria nei primi anni Ottanta, quando addirittura superò il livello italiano quanto a Pil pro-capite. Di fatto, gli strascichi positivi degli effetti generati dal modello di sviluppo dell’area Nec si sono protratti fino alla fine dello scorso millennio e per il Nord Est del Paese anche oltre. Ne è riprova il fatto di come, nel periodo intercensuario 1991-2001, in Italia siano stati proprio gli agglomerati distrettuali ad aver trainato più di altri l’occupazione manifatturiera ed anche l’export. Elementi di dinamismo superiori alla media sono rintracciabili in quel periodo anche in Umbria, ove le – allora 5 – aree distrettuali riconosciute dall’Istat si sono rivelate complessivamente tra le più vivaci della regione quanto a incremento occupazionale, non solo manifatturiero. Eppure, già ancora prima della seconda metà degli anni Novanta, l’economia dell’Italia mediana aveva cominciato a rallentare la sua crescita rispetto al dinamismo che continuava a contraddistinguere Veneto ed Emilia Romagna, da cui si sarebbe avviato un evidente processo di divaricazione. Forte frazionamento dimensionale, trasformazione fisica di prodotti, tendenza ad innovare per imitazione e con micro innovazioni, saper fare imprenditoriale e lavorativo poggiato sull’informalità e sui rapporti inter-personali, scarso uso delle Ict e di risorse umane altamente qualificate, approccio individualistico e localistico erano i cardini della cultura produttiva che aveva permeato per circa un trentennio i territori italiani dello sviluppo distrettuale. A differenza di quanto occorso nel Nord Est, le regioni del centro Italia non hanno saputo adeguatamente ricollocare questi cardini, convertendoli, entro le nuove coordinate imposte da un mercato sempre più aperto, digitalizzato e occupato da economie fortemente competitive. Come noto, il mutare delle condizioni esterne ha destabilizzato in generale il sistema Italia che, da una quindicina di anni circa, ha intrapreso un percorso inerziale consumatosi con il declino economico e sociale scoppiato con la crisi, a causa delle difficoltà di adattamento agli importanti cambiamenti nel frattempo intervenuti nell’economia mondiale. Tali difficoltà hanno frenato e frenano quella crescita (innovativa) che passa attraverso elevati investimenti in R&S e iniezioni di tecnologia e intelligenza che corrono lungo tutte le fasi della produzione di beni o servizi, a partire dalla progettazione e che permeano l’organizzazione stessa del lavoro. Così, il significativo divario in termini di innovazione accumulato dall’Italia già nel decennio precedente la crisi nei confronti dei principali paesi Ocse ha cominciato a tradursi nel divario dei tassi di crescita economica e quindi dei livelli di reddito pro-capite. L’obiettivo cruciale per l’economia italiana consiste dunque nel recuperare quei margini di competitività imposti dalle traiettorie di sviluppo attuali: una massiccia pervasività tecnologica, innovazione non solo incrementale ma radicale, una forte apertura all’esterno, l’attivazione sempre più diffusa di reti tra il mondo della ricerca e sistemi produttivi e, non ultimo, le nuove economie di urbanizzazione attivabili in grandi contesti metropolitani, quali dinamici veicoli di conoscenza. Si tratta evidentemente di fattori piuttosto lontani da quei caratteri vincenti (policentrismo, piccola imprenditorialità diffusa, forte radicamento territoriale, mix tra società, economia, istituzioni) che, solo qualche decennio fa, avevano garantito lo sviluppo “endocentrato” della Terza Italia.

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