Focus
Paolo Belardi
UMBRIA RICERCHE (2-3) / L’utopia è necessaria, anche in Umbria
Les visionnaires forment un ordre à part, singulier, où prennent place des talents très divers et peut être aussi des âmes inégales. Ils font paraître parfois ce qu’il y a de plus hardi et de plus libre dans la génialité créatrice, une puissance de divination toute concentrée sur les domaines les plus mystérieux de la rêverie humaine, et les effets d’une optique spéciale qui altère profondément la lumière, les proportions et jusqu’à la densité du monde sensible[1].
L’Umbria non è più una terra per visionari
Nell’incipit del suo celebre saggio Esthétique des visionnaires, Henri Focillon celebra l’importanza dell’immaginazione compilando un elenco dei più grandi visionari del passato. Un elenco lungo e variegato, perché affrancato da limiti temporali e da gerarchie disciplinari, ma non esaustivo. Infatti, pur concentrandoci anche solo sull’Umbria e anche solo sull’architettura (tanto della città quanto del paesaggio), potremmo aggiungere a buon diritto molti altri nomi. Ad esempio quelli di Matteo da Gattapone, di Antonio da Sangallo il Giovane, di Galeazzo Alessi, di Andrea Vici, di Paolo Campello della Spina e di Giuseppe Nicolosi: ideatori e spesso anche promotori di capolavori architettonici che continuano a emozionarci proprio perché capaci di creare altrettanti “luoghi” in cui il prodigioso assurge a bellezza. D’altra parte solo un visionario come Matteo da Gattapone poteva immaginare di realizzare uno spazio pubblico pensile come la piazza Grande di Gubbio. Solo un visionario come Antonio da Sangallo il Giovane poteva immaginare di sprofondare nel sottosuolo di Orvieto una doppia scala elicoidale. Solo un visionario come Galeazzo Alessi poteva immaginare d’incorporare la chiesa della Porziuncola nella teca muraria della basilica di Santa Maria degli Angeli. Solo un visionario come Andrea Vici poteva immaginare di rimodellare in chiave scenografica i balzi della cascata delle Marmore a Terni. Solo un visionario come Paolo Campello della Spina poteva immaginare di reinventare in forma di giardino botanico in miniatura le fonti del Clitunno. E solo un visionario come Giuseppe Nicolosi poteva immaginare di soppiantare la scala medievale di via dell’Arringo con la rampa gradonata che adduce in guisa di galleria prospettica alla piazza del Duomo di Spoleto. Gattapone, Sangallo, Alessi, Vici, Campello della Spina e Nicolosi: sei grandi visionari di diversa estrazione e di diversa formazione, ma accomunati da una propensione utopica che purtroppo, pur ispirando le tappe salienti dell’architettura umbra del secondo Novecento (dall’acropoli della Scarzuola, eretta da Tomaso Buzzi nella selva di Montegabbione, agli ex seccatoi del tabacco di Città di Castello, ripensati da Alberto Burri in guisa di struttura espositiva, fino alle scale mobili di Perugia, calate dai tecnici comunali nei meandri crepuscolari della rocca Paolina), non è sopravvissuta alla mannaia culturale del “pensiero debole” di fine millennio. Perché ormai la prudenza realista ha avuto la meglio sull’audacia immaginifica. Tanto che la propensione utopica è bandita a priori dagli studi professionali, dove giace soffocata sotto il cumulo delle pratiche burocratiche della ricostruzione postsismica o del Superbonus 110%, ed è confinata nelle aule universitarie, dove continua a essere alimentata nei disegni dei progetti di ricerca e delle esercitazioni didattiche. Il che fortunatamente non è di poco conto, in quanto gli studenti di oggi sono i progettisti del domani. Per questo mi ostino a rivendicare la necessità dell’utopia coltivando nel segno del disegno la propensione visionaria dei miei studenti: sia come responsabile di progetti di ricerca sia come relatore di tesi di laurea. Credo infatti che l’architettura non sia figlia dell’economia, ma credo che sia l’economia a essere figlia dell’architettura.
Non a caso nel nostro paese, ma anche e soprattutto nella nostra regione, gli errori più macroscopici sono stati commessi quando le idee sono state subordinate all’ansia di non disperdere finanziamenti reperiti senza una visione sottesa. Forse è venuta l’ora d’invertire la rotta e cercare di reperire i finanziamenti necessari per tradurre in pratica le idee. Soprattutto se utopiche.
L’utopia è un percorso pedonale pensile gettato tra passato e futuro
Se mi volto indietro e scorro idealmente il regesto degli esiti programmaticamente visionari delle attività didattiche e delle attività di ricerca svolte negli ultimi anni, provo un mix di malinconia e di orgoglio: malinconia perché si tratta di idee destinate a rimanere sulla carta, orgoglio perché si tratta di idee spesso premiate dall’attenzione dei migliori storici dell’architettura contemporanea. Limitandomi alle idee avanzate per Perugia, penso al belvedere panoramico immaginato costruito sul palazzo del Governo dai miei studenti di “Architettura e composizione” con il tutoraggio di Alessandro Bulletti e alla replica del Guggenheim newyorkese immaginato piantato al centro della piazza Nuova dagli studenti partecipanti a un workshop di “Festarch 2011” sotto l’egida di Andrea Zanderigo. Così come penso alla galleria archeologica ipogea immaginata scavata sotto piazza Matteotti e alla galleria energetica vetrata immaginata sospesa sopra via Mazzini insieme a Wolf Prix e ad Alessandro Melis. Ma penso anche all’ultima tesi di laurea in Ingegneria edile-Architettura di cui sono stato relatore, titolata Perugia (Para)site e redatta dallo studente Alessandro Moriconi immaginando di rigenerare uno dei quattro palazzi-ruderi che presidiano drammaticamente l’area ex Margaritelli di Ponte San Giovanni trasformandolo in un palpitante spazio museale en plein air, aggredito da un nugolo di “corpi meccanici parassiti” e collegato con il prospiciente parco archeologico dei Volumni mediante un lungo percorso pedonale aereo snodato sinuosamente al di sopra di un parco naturalistico composto in forma di necropoli etrusca e al disotto del viadotto del raccordo autostradale Perugia-Bettolle. Una tesi di laurea corredata da disegni struggenti, eseguiti citando la maniera di Ron Herron e di Lebbeus Wood per autocertificare un DNA tanto apocalittico quanto immaginifico. Ma non inverosimile. Perché l’utopia è necessaria, anche (e forse soprattutto) in Umbria.
Note
1 – Henri Focillon, Esthétique des visionnaires, in “Journal de psychologie normale et pathologique”, XXIII, 1926, p. 275.
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