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Mauro Casavecchia
Agenzia Umbria Ricerche

Premia investire nello studio?

13 Mar 2019
Tempo di lettura: 2 minuti

I giovani umbri sono un po’ più istruiti dei coetanei italiani ma molto meno di quelli europei. Molti fattori, di natura culturale o sociale, determinano questi bassi livelli d’istruzione terziaria, tra cui non ultimo una scarsa mobilità sociale che fa sì che a laurearsi, in sostanza, siano i figli dei laureati, mentre i figli dei diplomati spesso si fermano al diploma.
Ma alle origini della più attenuata spinta a studiare a lungo figura certamente anche il minor rendimento del titolo di laurea in Italia. Gli anni dell’università richiedono – oltre naturalmente all’impegno personale dello studente – anche un cospicuo investimento economico, sia per la spesa diretta in istruzione sia in termini di mancato introito per il bilancio familiare a fronte di un eventuale ingresso immediato nel mercato del lavoro dopo il diploma. Al netto degli indubbi benefici culturali derivanti, per il singolo e per la collettività, da qualsivoglia percorso di studio, è ragionevole dunque misurare l’appetibilità di questo investimento sulla base del presumibile ritorno economico.
Possiamo stimare questo rendimento principalmente ponendoci due domande: laurearsi rende più facile trovare un impiego? E permette di beneficiare di retribuzioni più elevate?
In generale, è vero che al crescere dei livelli di istruzione le prospettive occupazionali migliorano, di quasi 10 punti nel passaggio dal titolo secondario superiore a quello terziario (e di 19 punti nel confronto tra scuola dell’obbligo e diploma). Tuttavia questo vantaggio, diversamente da quanto accade in Europa, si rivela quasi inesistente sotto i trenta anni e tende a irrobustirsi solo in età più avanzate: tra i 25-29enni europei, un laureato ha difatti una occupabilità significativamente più alta, dell’ordine di 10 punti, rispetto alla media, mentre per i nostri giovani il possesso di una laurea agevola l’ingresso nel mercato del lavoro in modo molto più attenuato.
Quanto al vantaggio retributivo legato al livello d’istruzione, secondo recenti stime ogni anno di studio in più determina un aumento del reddito da lavoro dipendente nell’ordine dell’8%, crescente nel tempo. Ma, anche in questo caso, il differenziale tra laureati e diplomati in Italia è molto inferiore rispetto a quanto accade altrove: da noi, infatti, si calcola che i laureati guadagnino mediamente il 41% in più rispetto a chi si è fermato alla scuola secondaria superiore, mentre in Europa tale differenziale balza al 77% e addirittura al 98% tra i paesi Ocse.
È un altro dei numerosi paradossi italiani. Normalmente, esiste una relazione inversa tra la quota di popolazione con istruzione terziaria e il vantaggio retributivo per i laureati: dove questi ultimi scarseggiano, di solito vengono contesi sul mercato del lavoro e riescono a ottenere retribuzioni migliori. Invece in Italia questa relazione ha un andamento anomalo, registrando sia una bassa presenza di titoli di livello universitario, sia retribuzioni comparativamente modeste per i laureati.
Ciò accade anche perché il disallineamento tra le competenze acquisite tramite il percorso formativo e quelle richieste per svolgere il lavoro continua a essere un fenomeno molto diffuso, in modo particolare in Umbria, prima regione per quota di occupati sovraistruiti (quasi un terzo del totale). Evidentemente, la domanda di lavoro qualificato è ancora più scarsa dell’offerta, per quanto esigua essa sia. Probabilmente anche per effetto di una organizzazione produttiva basata prevalentemente su piccole imprese a basso contenuto di innovazione e dunque meno capace di dare sbocchi professionali adeguati alle figure high skilled.

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