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Giuseppe Coco
Agenzia Umbria Ricerche

Umbria 2024

5 Set 2019
Tempo di lettura: 3 minuti

Ricostruire il passato è nobile, difendere il presente è un segno di identità ma, al tempo stesso, non vanno assolutamente trascurati gli obblighi che abbiamo col futuro. Per questo sembra giusto chiedersi: dove sta andando l’Umbria? Esiste una qualche idea di futuro che non sia semplicemente progettare un “nuovo” che fa il verso al “vecchio”?

Bisognerebbe provare a cercare di non essere spettatori del proprio destino. Ci sono cose che si possono e si debbono fare. Il domani si prepara oggi. E a ben vedere le nostre società postindustriali trovano la loro ragion d’essere proprio nel progettare il futuro. Non farlo potrebbe metterci a rischio. Oggi più che mai bisogna avere il coraggio di guardarci intorno con più consapevolezze. Rispetto a certi temi c’è l’urgenza di una analisi con prospettive e punti di vista diversi da quelli usati fino a ieri.

A partire dal 2008 c’è stato un acuirsi dei problemi dell’Umbria. Si sono aperte una serie di lesioni anche in quelli che sembravano profili solidi. E questa volta non è stata colpa del terremoto, che ha fatto purtroppo altri tipi di danni. Le certezze costruite a fatica a partire dagli anni Sessanta – si pensi al caso umbro che approdò per ben due volte in Parlamento – oggi non sembrano essere più tali.

Dopo la Seconda guerra mondiale l’Umbria era povera. Poi le cose sono mutate al punto tale che all’inizio del terzo millennio molti indicatori socio-economici erano in linea, o migliori in alcuni casi, della media nazionale. Il sistema di welfare aveva fatto passi da gigante divenendo affidabile. Mobilità ed equità sociale mostravano belle convergenze. Ma, man mano che ci siamo allontanati dall’inizio del terzo millennio, i fattori di debolezza si sono moltiplicati mettendo in discussione la stessa idea di futuro. I segnali di sfiancamento del sistema si sono via via acuiti ma al tempo stesso sono stati talvolta sottovalutati. Di fatto i dati negativi emersi da analisi e ricerche sono stati spesso minimizzati, mentre quelli positivi sono stati esaltati. Il tutto molto probabilmente nella convinzione bonaria che tanto prima o poi la situazione sarebbe tornata a posto da sé.

Sta di fatto che lo status quo ci dice che il PIL pro-capite (ad euro correnti) nel 2017 vedeva una differenza tra l’Umbria e l’Italia di oltre 4.000 euro, rispettivamente 24.326 e 28.494. Ed ancora, la popolazione, dopo una crescita convincente andata avanti dal 2001 al 2010, oggi lascia pensare che nel giro di qualche decennio l’Umbria possa assistere ad una diminuzione di un numero di abitanti pari a quelli di una città della dimensione di Terni. L’incidenza di povertà relativa individuale nel 2017 ha toccato la vertiginosa quota del 17,6%; il dato riferito alle famiglie per il 2018 si attesta al 14,3%. La disoccupazione è passata dal 4,8% del 2008 al 9,4% del 2018.

È evidente che con la crisi molti indicatori hanno assunto valori negativi, ed in alcuni casi anche molto negativi. Lo scenario che emerge dai dati non è quello di una regione che gode di ottima salute.

Il punto da indagare, più di altri per chi scrive, è se all’oggi è ancora sostenibile, sotto un profilo economico, sociale, territoriale, il modello umbro che ha caratterizzato questo inizio del terzo millennio. Oppure se sia necessario creare una discontinuità. Nella consapevolezza che provare a mantenere lo status quo, ovvero fare i conservatori, un po’ come si è fatto, potrebbe servire a poco perché più che conservare sarebbe necessario invertire una tendenza che ormai ci caratterizza. E uno degli snodi da affrontare è: come si fa a far risalire la curva del PIL? Come si fa a far convergere i valori umbri almeno su quelli italiani?

Elaborazioni AUR su dati Istat.

Ci sono criticità che sicuramente vanno messe sotto la lente di ingrandimento e rispetto alle quali provare ad individuare una qualche possibile cura. Una cura che passa attraverso il miglioramento delle performances del sistema ovvero attraverso il miglioramento dei suoi livelli di efficienza e di trasparenza. Una cura che forse non può prescindere da una discontinuità rispetto al modello di sviluppo recente, senza trascurare storia e identità di una regione che nei momenti difficili – e di questo siamo consapevoli – ha sempre saputo dare il meglio di sé.

Per Keynes, “La più grande difficoltà nasce non tanto dal persuadere la gente ad accettare le nuove idee, ma dal persuaderli ad abbandonare le vecchie”.

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