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Elisabetta Tondini
Agenzia Umbria Ricerche

Dimissioni che crescono, lavori che cambiano

10 Mag 2022
Tempo di lettura: 8 minuti

Nel corso del 2021 anche l’Italia ha avuto la sua great resignation, per una significativa e piuttosto inattesa crescita del numero di persone che hanno lasciato volontariamente il lavoro.

Anche se sempre esistito, il fenomeno delle dimissioni con certi numeri è abbastanza nuovo per un mercato del lavoro, quello italiano, tradizionalmente rigido e connotato da bassi livelli di mobilità interna. Si può immaginare che risenta ancora dello scossone subito con lo scoppio della pandemia il quale ha indotto molte persone a rivedere le priorità di vita e a riflettere su tempi di lavoro più consoni alla propria quotidianità (Lavoro e dimissioni: nuovi valori?). Sicuramente, condizioni occupazionali sempre più precarie, riduzione delle retribuzioni, deterioramento delle relazioni lavorative, fenomeni di burn-out (soprattutto tra le professioni più stressanti, si pensi al mondo della sanità) hanno inciso sulla propensione ad abbandonare volontariamente il posto di lavoro determinando, oltre alle fuoriuscite dal mercato, anche passaggi al lavoro autonomo o a quello irregolare. Probabilmente, soprattutto tra i giovani, ha cominciato a farsi strada con sempre più forza il motto “si vive una volta sola” (quel You only live once della Yolo economy statunitense) che spinge alla ricerca di occupazioni più flessibili e più consone a nuovi equilibri tra lavoro e vita privata, sperimentati ampiamente e in modo prolungato con lo smart working.

Anche in Umbria nell’ultimo anno è cresciuto, e di molto, il numero di abbandoni volontari dal lavoro.

Secondo quanto emerge dall’Osservatorio Inps[1], le dimissioni dei lavoratori dipendenti del settore privato e degli enti pubblici economici nel corso del 2021 hanno superato quota 23.600, quasi un quinto in più rispetto a quelle del 2019 e quasi due quinti in più rispetto all’anno dello scoppio della pandemia. Si tratta di aumenti superiori a quelli registrati su base nazionale.

Potrebbe darsi che la crescita complessiva dal 2020 al 2021 (+6.700 in Umbria) abbia incorporato il rinvio di decisioni maturate quando la crisi da Covid ha cambiato un po’ di carte in tavola e spiegato il calo verificatosi nel 2020. E, ammettendo pure che i dati del 2021 siano stati parzialmente inquinati dagli abbandoni indotti dai datori di lavoro, è tuttavia innegabile che il fenomeno, in decisa espansione, sottenda dell’altro.

Dimissioni totali in Umbria da gennaio 2014 a dicembre 2021 (dati mensili)
Fonte: nostre elaborazioni su dati Inps

Cessazioni al netto delle dimissioni totali in Umbria da gennaio 2014 a dicembre 2021 (dati mensili)
Fonte: nostre elaborazioni su dati Inps

Dimissioni e cessazioni per altra causa dei tempi indeterminati in Umbria da gennaio 2014 a dicembre 2021 (dati mensili)
Fonte: nostre elaborazioni su dati Inps

Cessazioni, di cui dimissioni, totali e nei tempi indeterminati, in Umbria dal 2014 al 2021 (valori assoluti)
Fonte: nostre elaborazioni su dati Inps

Variazione dal 2019 al 2021 delle cessazioni (di cui dimissioni e cessazioni per altra causa), in Umbria e in Italia in totale e nei tempi indeterminati (valori %)

Fonte: nostre elaborazioni su dati Inps

Ad essere interessate dalle dimissioni sono le diverse tipologie contrattuali, ma ciò che colpisce di più è scoprire che nel 2021 gli abbandoni volontari siano stati in Umbria la causa di quasi i tre quarti delle cessazioni dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato (73% contro il 69% nazionale).

Non si tratta, come si sarebbe potuto pensare, di un fenomeno segnatamente femminile: la propensione alle dimissioni è più alta tra gli uomini che tra le donne (in Umbria rispettivamente 35,8% e 27,2% considerando il totale dei contratti) e, per entrambi i generi, più elevata nella regione (in Italia sia ha 30,7% per gli uomini e 26,9% per le donne). Tale propensione cresce su entrambi i fronti, ma nel contesto regionale a ritmi più intensi, soprattutto per la componente maschile.

Le differenze più importanti si trovano isolando i tempi indeterminati: nel 2021 in Umbria, 77 cessazioni di contratti a tempo indeterminato maschili su 100 (70 in Italia) sono attribuibili a dimissioni; per le donne tale valore, pure alto, rimane sotto 68, in Umbria come in Italia.

Incidenza delle dimissioni sulle cessazioni, in totale e nei tempi indeterminati, in Umbria e in Italia dal 2019 al 2021 (valori %)
Fonte: nostre elaborazioni su dati Inps

Propensione alle dimissioni nei tempi indeterminati, maschili e femminili, in Umbria e Italia dal 2014 al 2021 (dimissioni/cessazioni, %)
Fonte: nostre elaborazioni su dati Inps

Propensione alle dimissioni per fasce di età, totali e nei tempi indeterminati, in Umbria e Italia dal 2019 al 2021 (dimissioni/cessazioni e variazioni 2019/2021 delle dimissioni, %)
Fonte: nostre elaborazioni su dati Inps

Seppure il tasso di crescita dal 2019 al 2021 delle dimissioni aumenti con l’età, il fenomeno risulta relativamente più presente tra gli under 30 e assume valori minimi tra gli ultra cinquantenni: in particolare, tra i tempi indeterminati dei più giovani (ancorché si tratti di numeri esigui), nel 2021 le cessazioni di lavoro, in 82 casi su 100 (78 in Italia) sono da attribuire a dimissioni.

In ogni caso, anche analizzando i dati per fasce d’età, l’Umbria presenta propensioni agli abbandoni volontari del lavoro diffusamente più elevati che in Italia.

Propensione alle dimissioni nei tempi indeterminati per fasce di età in Umbria e Italia dal 2014 al 2121 (dimissioni/cessazioni, %)
Fonte: nostre elaborazioni su dati Inps

Al di là dell’importanza relativa di alcune attività rispetto ad altre, denunciata da consistenze numeriche differenti, i dati settoriali confermano l’intensificarsi del fenomeno rispetto al periodo pre-pandemico, che è stato trasversale (unica eccezione l’agricoltura)[2].

Al 2021 l’Umbria presenta rispetto al contesto italiano propensioni alle dimissioni nei tempi indeterminati maggiori soprattutto nei seguenti settori: Commercio, riparazione autoveicoli e motocicli, trasporto e magazzinaggio, servizi di alloggio e ristorazione; Costruzioni; Attività professionali, scientifiche e tecniche, amministrazione e servizi di supporto. Un po’ inferiori al dato nazionale, ma sempre alte, quelle relative all’Amministrazione pubblica e difesa, assicurazione sociale obbligatoria, istruzione, sanità e assistenza sociale e alle Attività artistiche, di intrattenimento e divertimento; riparazione beni per la casa e altri servizi.

Dimissioni in Umbria per settori di attività economica nei contratti a tempo indeterminato e in altri tipi di contratto al 2021
Fonte: nostre elaborazioni su dati Inps

Propensione alle dimissioni in Umbria e in Italia per settori di attività economica nei tempi indeterminati, anni 2019 e 2021 (dimissioni/cessazioni, %)

Fonte: nostre elaborazioni su dati Inps

L’abbandono volontario del lavoro corre geograficamente lungo tutto il territorio italiano (anche se con maggiore frequenza al Nord), non risparmia nessuna età e attraversa differenti condizioni, dalla bassa scolarizzazione alla laurea, dagli operai alle professioni ai vertici della piramide professionale.

Diverse indagini condotte in Italia per cercare di cogliere caratteri e motivazioni che inducono a rassegnare volontariamente le dimissioni collocano al primo posto la ricerca di condizioni economiche più favorevoli, segue subito dopo il desiderio di conquistare un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata, quindi la volontà di trovare maggiori opportunità di carriera altrove. Se così è, tutto lascia supporre che in Umbria la prima motivazione sia a fortiori la più importante, visti i livelli retributivi del lavoro in Umbria strutturalmente inferiori alla media nazionale.

Il quadro italiano – da un punto di vista motivazionale – non sembra discostarsi dunque da quello statunitense, se non per l’intensità del fenomeno: l’onda lunga d’oltreoceano è stata un vero e proprio tsunami, pur in un contesto di riferimento sotto diversi punti di vista molto differente dal nostro. Intanto, più che di great resignation là si sta cominciando a parlare di great reshuffle, ovvero di un grande rimescolamento del mercato segnato da sempre più numerosi spostamenti da un lavoro a un altro (job to job transitions).

Anche da noi – come rivelano le comunicazioni obbligatorie rilasciate dal Ministero del lavoro – i dipendenti che hanno rassegnato volontariamente le dimissioni hanno trovato una nuova occupazione più rapidamente e più frequentemente rispetto al periodo pre-pandemico, con spostamenti anche verso professioni o settori diversi da quelli di provenienza. A fluidificare questi passaggi – e dunque ad incentivare le dimissioni del 2021 – si ritiene possa aver contribuito la ripresa occupazionale favorita dal traino di alcuni settori e dalla ristrutturazione di altri (come la manifattura) che offrono nuove opportunità favorendo processi di ricollocazione professionale a chi vuole un cambiamento migliorativo delle proprie condizioni di lavoro, soprattutto ai profili tecnici e specializzati, rispetto ai quali le aziende stanno incontrando difficoltà crescenti di reclutamento. Dunque, in alcuni casi almeno, lasciare un lavoro certo non costituirebbe un vero e proprio salto nel buio.

In più, nel nostro Paese, in questa accresciuta ricerca di nuovi equilibri di vita e di condizioni lavorative più appaganti è probabile sia intervenuta la disponibilità di sussidi elargiti negli ultimi due anni: il reddito di cittadinanza può essere una buona alternativa a un lavoro non soddisfacente, sottopagato, senza possibilità di carriera e, ove nel frattempo si recupera il proprio tempo di vita, si può attendere una collocazione migliore, visto che uno scudo protettivo viene assicurato.

Alla luce di queste considerazioni, inquadrare la crescita delle dimissioni come l’avvio di una trasformazione sostanziale del tradizionale approccio al lavoro è sicuramente prematuro. Lo shock del 2020 può aver sollecitato riflessioni e scelte rimandate l’anno successivo ma destinate a rientrare, riportando tutto alla normalità o, al contrario, può essersi rivelato il detonatore che ha fatto esplodere un sentiment latente ma largamente diffuso. Una cosa è certa: lavoratori che si dimettono, disoccupati che calano, forze di lavoro potenziali ancora troppo numerose rispetto ai livelli pre-pandemici, occupati che aumentano, sono tutti fenomeni rivelatori di un mercato che si è rianimato, sicuramente più dinamico di un tempo e che verosimilmente sarà destinato a cambiare fisionomia molte volte, prefigurando situazioni di mobilità e fluidità come mai prima. Sono segnali, questi, da non sottovalutare: forse che le rigidità, la bassa dinamicità salariale, le scarse opportunità professionali che hanno da tempo stigmatizzato il nostro mercato del lavoro stiano cedendo il passo a nuovi paradigmi?

 

Note
[1] L’Osservatorio sul precariato dell’Inps riporta – tra l’altro – le cessazioni occorse mensilmente relative ai lavoratori dipendenti del settore privato, esclusi i lavoratori domestici e gli operai agricoli e, della Pubblica Amministrazione, soltanto i lavoratori degli Enti pubblici economici (quali, ad es., le Aziende sanitarie locali, l’Agenzia del demanio, l’Agenzia delle entrate – Riscossione, la SIAE). I dati sulle cessazioni rilevate dall’Inps differiscono da quelli pubblicati dal Ministero del lavoro, tratti dalle Comunicazioni Obbligatorie, essenzialmente per il diverso campo di osservazione: in particolare questi ultimi includono tutti i rapporti di lavoro dipendente e parasubordinato (ma escludono le missioni dei rapporti di lavoro in somministrazione). 
[2] Si ricorda tuttavia che l’archivio Inps qui utilizzato non comprende gli operai agricoli.

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