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Elisabetta Tondini
Agenzia Umbria Ricerche

Diversamente uguali di fronte al Coronavirus

27 Ott 2020
Tempo di lettura: 6 minuti

Le conseguenze virtuose sulle disuguaglianze sociali prodotte da guerre, rivoluzioni, pandemie (non a caso definite dallo storico Walter Scheidel “le grandi livellatrici”), non saranno l’esito del contagio da Covid.
Questo perché, per fortuna, rispetto ai grandi eventi catastrofici del passato, il virus diffusosi nel 2020 si distingue per una mortalità assai più contenuta, senza paragoni – peraltro su una popolazione per lo più anziana – dunque con effetti praticamente nulli in termini di contrazione della forza lavoro.
L’emergenza Covid si sta comportando come le pandemie più recenti che, a detta degli studiosi, hanno generato un incremento della disuguaglianza del reddito per almeno i cinque anni successivi al loro verificarsi. Fino ad oggi, oltre ad aver messo in ginocchio il sistema sanitario del nostro Paese e causato uno shock economico senza precedenti dal secondo dopoguerra, il Covid è sicuramente intervenuto in senso peggiorativo sulle disuguaglianze anche se, visto che l’emergenza è ancora in corso, non se ne riesce a quantificare né il reale impatto né gli strascichi futuri. È proprio di pochi giorni fa l’appello del Presidente della Repubblica Mattarella affinché gli sforzi per affrontare il grave momento sanitario, economico, sociale vertano a colmare divari sopraggiunti e a ridurre diseguaglianze sempre più inaccettabili e onerose.
Ignorando per il momento gli esiti dei recenti provvedimenti a seguito della recrudescenza autunnale, le misure per il contenimento del contagio (dalla sospensione temporanea di talune attività alla introduzione di modalità lavorative ed educative a distanza) imposte durante il primo lockdown hanno prodotto, tra l’altro: un rapido calo di occupati e di ore lavorate, la diminuzione di stipendi e salari, la contrazione dei consumi, la chiusura definitiva di alcune attività economiche, la diffusione di un clima di profonda incertezza per produttori e consumatori e più in generale alcuni cambiamenti nei modelli di domanda. Questi fenomeni, verificatisi in un contesto di interventi governativi di sostegno al reddito, diversificati per tipologia di lavoratore, individuo, famiglia, hanno provocato un inasprimento della disomogeneità nella distribuzione dei redditi e, più in generale, accentuato le disuguaglianze sociali.
Questo perché, pur nell’universalità dell’aggressione virale, i caratteri socio-economici degli individui sono in sé una variabile discriminante ai fini del contagio; in secondo luogo, l’insieme di effetti generati almeno nel primo periodo hanno prodotto conseguenze fortemente asimmetriche sulle condizioni delle famiglie.
Sul piano sanitario, distintosi per genere ed età (la mortalità ha colpito soprattutto anziani maschi), la prima considerazione da fare riguarda la disuguaglianza di salute ascrivibile sia ai caratteri sociali, principalmente il livello di istruzione, sia soprattutto alle condizioni economiche degli individui. La mortalità da Covid in Italia ha infierito prevalentemente su persone con titoli di studio più bassi e condizioni economiche peggiori (Istat). È noto che, soprattutto alla seconda variabile, si associa una insufficiente (non voluta, non conosciuta, non consapevole) attenzione alle cure mediche e alla prevenzione sanitaria, che produce una insorgenza più frequente e in età meno avanzata di malattie croniche, una speranza di vita più breve e in generale una maggiore vulnerabilità sanitaria.
Sul fronte lavorativo, un primo fattore di differenziazione si riscontra tra le attività più o meno sicure in termini di esposizione al rischio di contagio, un fattore che rende diversamente vulnerabili le persone con un impiego considerato indispensabile per la collettività. Inoltre: settori più o meno colpiti dalla crisi – per effetto della sospensione dell’attività, per il naturale calo della domanda, per la difficoltà di approvvigionamento nella catena di fornitura – ma anche categorie lavorative diversamente fragili – per forma contrattuale e qualifica professionale, diversamente beneficiarie di ammortizzatori sociali, agevolmente convertibili o meno in smart workers – si sono rivelati elementi che, interagendo tra loro, hanno contribuito ad esasperare disuguaglianze esistenti o generato ulteriori sacche di vulnerabilità, anche tra la middle class lavorativa. Ci si riferisce ad esempio ai dipendenti a tempo determinato del settore privato cui non è stato rinnovato il contratto, ad alcuni lavoratori autonomi, professionisti compresi, che hanno subito una drastica riduzione del proprio reddito quando non un azzeramento nel caso di chiusura definitiva dell’attività, nonché ai lavoratori dell’economia informale che, improvvisamente, hanno subito una forte deprivazione economica e sono diventati soggetti a rischio di povertà o poveri.
Analogamente alla crisi del 2008, i più tutelati da un punto di vista economico sono ancora una volta i pensionati e i dipendenti pubblici, questi ultimi per la sicurezza sia contrattuale sia sanitaria (connessa alla possibilità di lavorare da remoto o di non lavorare affatto). In generale, a differenza delle occupazioni manuali che richiedono quasi totalmente la presenza sul posto di lavoro, le occupazioni di tipo impiegatizio sono quelle che hanno subito e subiranno minori ripercussioni, grazie alla possibilità di svolgere il lavoro in smart working. Una modalità lavorativa che tuttavia svantaggia, ancora una volta, i soggetti economicamente più deboli, costretti a lavorare in situazioni peggiori dovendo condividere spazi abitativi inadeguati e in condizioni di promiscuità.
Fino ad oggi, le conseguenze più severe si sono riversate sui lavoratori indipendenti e su quelli con contratti a termine. In uno scenario nazionale che ha registrato nel primo periodo un aumento della disomogeneità nella distribuzione dei redditi (secondo Banca d’Italia il quintile più povero della popolazione ha subito una riduzione dei propri redditi doppia rispetto a quella accusata dal quintile più ricco), si rilevano specificità che testimoniano l’asimmetria dell’impatto economico da Covid per categorie di occupati: il 15% di soggetti che mediamente hanno dichiarato un dimezzamento del proprio reddito familiare nei mesi di lockdown sale infatti al 27% tra i dipendenti a termine e al 36% tra gli autonomi (includendo gli interventi di sostegno).
In Umbria, la fase della sospensione delle attività considerate a maggior rischio di diffusione del contagio ha riguardato 119 mila occupati (un terzo del totale), il 68% dei quali lavoratori dipendenti e il restante 32% lavoratori autonomi. Tuttavia, la chiusura temporanea delle attività si è abbattuta più pesantemente sugli autonomi con dipendenti, interessati per il 50% dai provvedimenti di sospensione, rispetto ai lavoratori alle dipendenze, coinvolti per il 30% di essi (Istat).
Tra gli occupati, il genere e l’età sono stati i due fattori che hanno visto ampliare squilibri già esistenti: la crisi economica conseguente all’emergenza sanitaria ha colpito più frequentemente donne e giovani, entrambi per la maggiore frequenza di contratti precari e parcellizzati, non ugualmente tutelati come le assunzioni standard. Per entrambe le categorie hanno sicuramente inciso in diversa misura il forte rallentamento delle nuove assunzioni e la mancata proroga dei contratti a termine che, per le donne, può essere particolarmente problematica in quanto la fuoriuscita dal mercato del lavoro le espone a una più difficile ricollocazione.
Per i giovani, oltre a una maggiore diffusione di contratti temporanei in scadenza non rinnovati, il più probabile rischio di perdere il lavoro è ascrivibile alla maggiore concentrazione nel terziario privato (il comparto mediamente più colpito), alla più elevata diffusione del lavoro informale e delle attività di tirocinio (per lo più sospese) che non prevedono le tutele proprie dei lavoratori dipendenti. Dunque, il rinvio del primo ingresso nel mondo del lavoro in questa fase di ristrettezze si è aggiunto a interruzioni del proprio percorso di consolidamento di carriera, rendendo ancora più cupe le prospettive economiche anche in termini di accantonamenti previdenziali, per un aggravio dello stato di marginalità di una generazione già ampiamente discriminata.
Se si considera la compagine produttiva sulla base del presunto impatto negativo sul valore aggiunto a seguito della pandemia, si scopre che in Umbria ad essere maggiormente penalizzati sono stati proprio i più giovani (Aur). Gli occupati con meno di 35 anni impiegati in settori considerati ad alto rischio economico sono pari al 18,5%, contro il 12,8% dei 35-55enni e il 9,6% degli ultra cinquantacinquenni.
Le donne, da questa prospettiva analitica, risultano invece relativamente meno a rischio degli uomini. La concentrazione femminile, pari al 23% nei settori ad alto e medio-alto rischio (contro il 37% di uomini), sale al 41% (a fronte del 30% dei maschi) considerando i settori meno penalizzati o in espansione. Ciò in virtù del fatto che l’occupazione umbra risulta relativamente più concentrata nel comparto pubblico (sanità e istruzione), più femminilizzata e a bassa rischiosità economica.
In questa rapida disamina di alcuni effetti sperequativi prodotti dalla pandemia in corso, un’ultima considerazione – ma non di minore importanza – merita l’acuirsi delle disuguaglianze tra i più piccoli derivanti dalla sperimentazione della didattica a distanza, introdotta repentinamente per necessità durante il periodo del lockdown e prevista per le scuole superiori nei recenti provvedimenti autunnali. Purtroppo, questa nuova modalità di apprendimento rischia di mettere a repentaglio il nobile tentativo dell’istruzione pubblica di fungere da equalizzatore sociale, perché accentua gli svantaggi degli studenti con un fragile background socio-economico. Oltre ai bambini e ai ragazzi con disabilità, che vengono privati della mediazione del sostegno dell’insegnante e della interazione con i pari, vi sono coloro che vivono in contesti familiari più deboli, per cui impedimenti tecnologici o il mancato supporto genitoriale anche solo in termini di stimoli e motivazione rischiano di lasciarli ai margini dei processi di apprendimento. Per i più vulnerabili, in definitiva, le lezioni da remoto saranno state sicuramente più difficili da seguire, per scarsità o assenza di strumenti adeguati, per condizioni abitative promiscue, per le limitate competenze dei genitori che con molta più difficoltà avranno potuto aiutarli nel loro lavoro di studenti.
Ecco come un’altra risposta di contrasto alla pandemia – ampiamente dibattuta per i risvolti in termini di rischio contagio da un lato e per le conseguenze in termini di asimmetrie nei processi di apprendimento dall’altro – finisce per agire in maniera iniqua, perché aggrava quell’impoverimento culturale dei bambini e dei ragazzi più svantaggiati che molte conseguenze nefaste produce sulla situazione futura dei singoli e sullo sviluppo della società.
Il drammatico evento che da mesi stiamo vivendo è dunque ben lontano da agire in modo egualitario.
Di fronte al diffondersi del contagio e alle misure sanitarie ed economiche per favorirne il contenimento, l’evidenza che le disparità socio economiche esistenti sono strettamente correlate alla esposizione al rischio si combina a un’alta probabilità che, in futuro, tali disparità si possano ulteriormente aggravare per entità ed evoluzione.