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Elisabetta Tondini
Agenzia Umbria Ricerche

Lavoro e dimissioni: nuovi valori?

22 Nov 2021
Tempo di lettura: 7 minuti

Non vi è dubbio che il periodo della pandemia abbia fatto maturare – tra molte altre riflessioni, reazioni, comportamenti – una diversa consapevolezza delle proprie priorità di vita. Differenti e su più fronti sono le conseguenze del periodo di sconvolgimento di cui subiamo ancora gli strascichi, ma non sappiamo ancora bene quanto e per quanto la nuova normalità sarà densa di nuovi connotati.

Tra le persone più fortunate, quelle con un impiego, ha cominciato a serpeggiare una sorta di insoddisfazione nei confronti della propria condizione occupazionale, anche a tempo indeterminato, sfociata in un aumento delle dimissioni. Stando alle numerose indagini su scala globale, le ragioni che hanno portato a una scelta così drastica sono diverse: la ricerca di un’attività più flessibile in nome dell’equilibrio tra lavoro e vita privata o di incarichi più idonei alle proprie competenze e più gratificanti, non solo da un punto di vista retributivo, oppure ancora essere giunti al capolinea, ovvero a quel punto di rottura provocato da sedimentati aggravi di lavoro non controbilanciati da adeguati riconoscimenti o sicurezze per il futuro. È la great resignation (o great attrition), la grande ondata di dimissioni da parte di molti lavoratori che sta cominciando a generare seri problemi all’operatività di un numero sempre più ampio di imprese.

Sia ben chiaro, il fenomeno delle dimissioni dal lavoro è sempre esistito, ma sta aumentando. A livello globale si stima che, entro il 2021, 4 lavoratori su 10 sono intenzionati a cambiare lavoro (studio McKinsey); in Italia, nel primo semestre dell’anno in corso, 2 cessazioni di rapporto di lavoro su 10 sono attribuibili alla volontà del dipendente: oltre 836 mila occupati hanno rassegnato le proprie dimissioni – al netto delle richieste di pensionamento – le quali, dal primo al secondo trimestre, hanno subito un balzo del 38% (Ministero del lavoro e delle politiche sociali).

Viene da chiedersi se si è di fronte a un cambiamento nel modo di porsi di fronte al lavoro oppure a una ondata passeggera, determinata dagli eventi pandemici, destinata alla fine a rientrare. Eppure, leggendo tra le pieghe del fenomeno su base mondiale si direbbe che siamo di fronte a un vero e proprio mutamento sociale sospinto da nuovi riferimenti valoriali: sono i giovani i più coraggiosi – e dunque più la generazione Z che quella dei Millennial – a lasciare più spesso il proprio lavoro in modo volontario, mossi dall’esigenza di un’occupazione che salvaguardi innanzitutto l’aspetto motivazionale; è tra i più giovani che conta maggiormente essere valorizzati all’interno di un’organizzazione, avere incarichi più mirati e soddisfacenti, chance di carriera, la possibilità di gestire in maniera flessibile il proprio tempo di vita. In buona sostanza, l’importanza della realizzazione nel lavoro, per una vita soddisfacente, diventa una priorità che li spinge a cambiare, se necessario, il proprio status anche in mancanza di un’alternativa immediata, preferendo magari forme lavorative di tipo autonomo, in nome del motto You Only Live Once (da qui la definizione di Yolo Economy).

Da noi cosa sta succedendo? E soprattutto, perché e da quale situazione lavorativa una persona con un impiego, soprattutto se a tempo indeterminato, decide di dimettersi?

Una prima, seppure parziale, risposta al primo quesito viene offerta dalla banca dati Inps, che ci permette di rilevare le dimissioni da contratti a tempo indeterminato su un’ampia porzione di lavoratori dipendenti del settore privato[1].

Sulla base di questo campo di osservazione, si evince che in Italia, così come in Umbria, il fenomeno degli abbandoni dei tempi indeterminati è presente e in espansione visto l’aumento, nella prima metà dell’anno in corso, del numero dei relativi contratti cessati per volontà del dipendente. Dunque sembra che anche da noi la pandemia abbia dato un impulso al fenomeno, un po’ più in Umbria che in Italia, almeno in termini dinamici: nel primo semestre 2021, rispetto allo stesso periodo del 2019, le dimissioni volontarie dei lavoratori con contratti a tempo indeterminato del settore privato sono cresciute in Umbria del 7,6%, a fronte del 3,7% italiano. Molto più elevata è la crescita rispetto al 2020 (ma il congelamento del mercato nello scorso anno rende poco significativi i tassi di crescita).

Nel primo semestre 2021, le 7.443 cessazioni di lavoro a tempo indeterminato all’interno del campo di osservazione di riferimento accumulate in Umbria sono costituite in 5.546 casi da dimissioni (il 77%, a fronte del 73% italiano). Nello stesso periodo del 2019 l’abbandono volontario di occupazioni a tempo indeterminato costituiva in Umbria il 60% delle cessazioni (il 58% in Italia) e nel 2014 il 47% (contro il 50% nazionale).

Dimissioni da rapporti di lavoro a tempo indeterminato del settore privato* in Umbria e in Italia e quota sul totale delle cessazioni a tempo indeterminato nel periodo gennaio-giugno di ogni anno
* Sono esclusi i lavoratori domestici e gli operai agricoli e ricompresi i lavoratori i degli Enti pubblici economici. Nelle dimissioni a tempo indeterminato sono esclusi i lavoratori somministrati e chiamata, inclusi invece nel computo delle dimissioni totali e delle cessazioni. Pertanto il dato delle dimissioni dei tempi indeterminati del settore privato risulta sottostimato.
Fonte: elaborazioni dell’autrice su dati Inps – Osservatorio sul precariato

 

La composizione per età dei tempi indeterminati nel mercato italiano e umbro, di appannaggio dei soggetti più maturi (al 2020 i giovani con meno di 30 anni sono presenti per il 13% circa) incide naturalmente sulla composizione delle relative dimissioni. Ecco dunque che i lavoratori dai 30 ai 50 anni concentrano, nel primo semestre 2021, il 54% delle dimissioni, in Umbria così come in Italia; segue la fascia dei lavoratori ultra cinquantenni, che assorbono il 35% in Umbria (il 29% in Italia); da ultimo i più giovani, che rappresentano l’11% del totale dei dimissionari nella regione (e il 17% in Italia).

In definitiva, da gennaio a giugno 2021 in Umbria si sono dimessi 655 occupati a tempo indeterminato che operano nel privato con meno di 30 anni, oltre 3 mila 30-50 enni, 2 mila ultra 50 enni, seguendo una crescita rispetto al 2019 che risparmia la coorte più giovane.

Dimissioni da posizioni lavorative a tempo indeterminato del settore privato*, in Umbria e in Italia, nel primo semestre 2021 per fasce di età (composizione per fasce di età, valori %)

* Sono esclusi i lavoratori domestici e gli operai agricoli, i lavori somministrati e a chiamata. Sono ricompresi i lavoratori i degli Enti pubblici economici.
Fonte: elaborazioni su dati Inps – Osservatorio sul precariato

Dimissioni da posizioni lavorative a tempo indeterminato del settore privato in Umbria nel primo semestre di ogni anno per fasce di età (valori assoluti)

* Sono esclusi i lavoratori domestici e gli operai agricoli, i lavori somministrati e a chiamata. Sono ricompresi i lavoratori i degli Enti pubblici economici.
Fonte: elaborazioni su dati Inps, Osservatorio sul precariato

 

Cercando di scorporare l’effetto della disomogeneità generazionale del tessuto occupazionale di riferimento (rapportando cioè il numero di dimissioni ai relativi occupati), ci si accorge: che la propensione all’abbandono volontario dell’impiego si accresce al diminuire dell’età; che il fenomeno è presente da qualche anno; che tra i più giovani si attenua nel tempo, in controtendenza rispetto a quanto succede tra le generazioni più mature. Al di là di questi elementi di omogeneità, l’Umbria si connota per tassi di abbandono volontario più bassi di quelli nazionali, per distanze che aumentano al diminuire dell’età; inoltre, nel 2020 i livelli nella regione finiscono per convergere, mentre in Italia il valore degli under 30 continua a rimanere più elevato.

Stima del tasso di dimissione dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato del settore privato* per fasce di età
* La stima del tasso di dimissione è calcolato come rapporto tra numero di dimissioni dei dipendenti a tempo indeterminato del settore privato (esclusi i lavoratori domestici e gli operai agricoli, i lavori somministrati e a chiamata e ricompresi i lavoratori i degli Enti pubblici economici) e gli occupati a tempo indeterminato dei settori privati esclusa l’agricoltura.
Fonte: elaborazioni su dati INPS – Osservatorio sul precariato, Osservatorio sui lavoratori dipendenti

 

Naturalmente la crescita delle cessazioni di lavori a tempo indeterminato per dimissioni occorsa l’anno successivo alla diffusione pandemica può derivare da molte ragioni. Oltre a quelle legate a una maturata insoddisfazione per il proprio impiego, ricordate in apertura, può aver contribuito all’amplificazione del fenomeno la presenza e/o il potenziamento di strumenti di sostegno al reddito. Inoltre, le dimissioni possono nascondere sia casi di abbandono non propriamente volontari, laddove indotti dai datori di lavoro di fronte a una contrazione dell’attività, sia anche decisioni programmate e posticipate a causa del congelamento del mercato nell’anno dello scoppio della pandemia.

È ancora presto dunque per comprendere l’entità e l’evoluzione del fenomeno. Il quale, se dovesse continuare a espandersi, lascerebbe supporre un vero e proprio cambiamento culturale, anche in Italia, che meriterebbe di essere studiato per capire chi sono le persone che lasciano un impiego a tempo indeterminato (quale lavoro, quali mansioni, in quale settore e con quali prospettive di riallocazione). Ma c’è di più: da un punto di vista economico, l’aumento del tasso di dimissioni potrebbe sottendere un mercato del lavoro in salute, che lascerebbe spazi per riallocazioni migliori, a vantaggio di un generale aumento della produttività. Una conseguenza, quest’ultima, che dipenderebbe comunque dalla motivazione principale che spinge il lavoratore ad abbandonare il proprio impiego e di conseguenza dal tipo di ricollocazione.

Una cosa è certa: queste nuove tendenze interverrebbero a rendere ancora più fluido e mobile un mercato già da tempo espressione di fenomeni inediti e solo apparentemente contrastanti – come la presenza di elevati tassi di disoccupazione che convivono con ampie fette di una domanda di lavoro insoddisfatta – che stanno segnando una sempre più marcata segmentazione del mondo del lavoro.

Nota
[1] I dati qui di seguito commentati si riferiscono a un campo di osservazione specifico, ovvero ai lavoratori dipendenti del settore privato, esclusi i lavoratori domestici e gli operai agricoli e, della Pubblica Amministrazione, soltanto i lavoratori degli Enti pubblici economici. Per i lavoratori somministrati e quelli a chiamata (c.d. intermittenti), pur inclusi nel computo delle dimissioni, non è possibile distinguere la tipologia contrattuale (determinato, indeterminato). Pertanto, le dimissioni dei tempi indeterminati risultano sottostimate in quanto non comprendono quelle dei lavoratori somministrati e a chiamata i quali, pure, sono computati nel totale delle dimissioni. Per brevità il campo di osservazione di riferimento nel presente testo verrà nominato come “settore privato”.

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