Focus
Giuseppe Croce
L’Umbria e il PNRR / 8 – Un bazooka tra opportunità e perplessità
L’obiettivo del PNRR Umbria è di avviare una nuova fase di crescita duratura e sostenibile. Per fare questo l’economia umbra deve aumentare la produttività dei suoi fattori. Non si tratta semplicemente di correggere le tendenze degli ultimi anni ma di produrre uno shock che faccia saltare l’economia regionale su un sentiero diverso, direi ortogonale al sentiero di declino degli ultimi decenni. Questo richiede una riqualificazione delle capacità manageriali e tecnologiche delle imprese esistenti, ma lungo questa strada i miglioramenti ottenibili sono limitati per quanto importanti. La strada obbligata, allora, consiste nell’investimento in nuove “dotazioni” (infrastrutturali, urbane, di ricerca e formazione, industriali, ambientali) capaci di fare da leva a un ricambio della struttura imprenditoriale attraverso l’ingresso di nuove attività a più elevata produttività.
Ne discende che per valutare nel loro insieme gli investimenti delineati dal PNRR sono rilevanti tre criteri: la capacità di trasformazione dell’economia, la capacità di attivare processi duraturi di crescita, la capacità di mettere le città al centro.
Veniamo al primo criterio. Ogni singolo progetto, e il piano nel suo insieme, può essere collocato in un continuum tra due diverse logiche, quella della manutenzione straordinaria dell’esistente e quella della trasformazione. Si tratta di due logiche entrambe necessarie e che in qualche modo devono bilanciarsi. La manutenzione straordinaria ha il vantaggio del realismo perché parte dalle risorse che già esistono e punta alla loro valorizzazione (es. gli interventi per l’anfiteatro romano di Spoleto). Tuttavia, la sola manutenzione può frenare momentaneamente il declino ma è insufficiente a determinare lo shock di cui si è detto. All’Umbria serve una robusta dose di interventi di tipo trasformativo. Ma investimenti con questa ambizione richiedono una verifica seria degli scenari di mercato di medio e lungo periodo e dei presupposti necessari al loro successo altrimenti si finisce per gettare fumo negli occhi inseguendo temi di moda che servono solo, nel migliore dei casi, a massimizzare la probabilità che vengano selezionati dalle burocrazie ministeriali e europee. In assenza di tale verifica i progetti finiscono per essere vaghi, fuori scala e “fuori luogo” e si finisce per replicare i tanti fallimenti già visti nel passato (qualcuno si ricorda del Distretto Tecnologico Umbro?).
Il piano prevede 45 linee di intervento per un totale di 3,12 mld, con un finanziamento medio di 70 mln per linea. Ma in realtà il 62% del budget totale, pari a quasi 2 mld, è concentrato sulle dieci linee di maggior peso, comprese tra i 98 ei 400 mln.
Di queste, sei (Distretto dei nanomateriali, nuova mobilità urbana, polo chimico di Terni, rete di parchi, ciclovie e sentieri, Polo scientifico regionale e edilizia sanitaria) presentano un elevato potenziale di trasformazione e assorbono il 58% dei 2 mld, e quattro (aree industriali e artigianali, valorizzazione lago Trasimeno, edilizia scolastica, mitigazione rischio idrogeologico) seguono invece una logica di manutenzione e assorbono il restante 42%. Nel complesso, quindi, un bilanciamento apprezzabile tra le due logiche. I problemi emergono andando ad analizzare con più attenzione i singoli progetti: soprattutto quelli di carattere trasformativo non sembrano supportati dalla seria verifica di cui abbiamo detto.
Due esempi. Quali sono i presupposti che rendono credibile il progetto di Distretto dei nanomateriali? E quale la sua specializzazione tra quelle elencate? O si pensa che possa avere una vocazione generalista?
Per il Polo chimico di Terni si prevedono 30 mln per infrastrutture di ricerca. Ma a quali condizioni questo enorme investimento diventa un motore di sviluppo? Certo non basterà ristrutturare qualche palazzina e metterci dentro laboratori all’avanguardia. E quali le università coinvolte? Ha senso puntare solo e sempre sull’università di Perugia? Perché non farne l’occasione per lanciare una cooperazione tra più università del centro Italia e istituire un dottorato di ricerca a Terni?
Il secondo criterio chiede di verificare se al di là degli stanziamenti finanziari, i progetti comprendono tutti gli ingredienti extrafinanziari assolutamente necessari a fare del piano la leva capace di attivare processi duraturi di crescita. Ovvero il Piano presta attenzione anche a “tutto ciò che i soldi non possono comprare” (e che pure è decisivo)? Stiamo parlando innanzitutto di tre aspetti: della scelta dei modelli di governance delle nuove realtà che si vanno a creare (che significa anche prevedere capacità manageriali per la loro gestione), della ricerca di sinergie tra diversi attori già dalla fase di progettazione anche per produrre un effetto moltiplicativo tra investimenti pubblici e privati, e dell’apertura a robuste relazioni con realtà extraregionali. Per tutti questi aspetti il Piano è insoddisfacente. Tranne poche eccezioni, su tutto ciò non si dice nulla di chiaro.
Per quanto riguarda la governance si ricorre soprattutto alla creazione di società partecipate della Regione. Le sinergie sono poche e di carattere statico. Infine, in perfetta continuità con il passato, si continua a coltivare il mito di una regione chiusa e autosufficiente.
Ad esempio, la linea di investimenti per l’Università, seppure molto generosa, non si preoccupa neanche marginalmente di ricercare sinergie con gli altri Atenei piccoli e medi del centro Italia. Eppure in una logica di cooperazione, le risorse straordinarie oggi disponibili potrebbero consentire al sistema universitario del centro Italia di compiere il salto necessario a qualificarsi come attore di prima fila a livello europeo. Molto positiva, invece, l’attenzione agli Istituti Tecnici Superiori (ITS).
Il terzo criterio consiste nella capacità del piano di essere ancillare rispetto all’avvio della crescita dei maggiori centri urbani. Delle dieci principali linee di intervento, tre sono direttamente riferite a Perugia e Terni (nuova mobilità urbana, Polo scientifico e Polo chimico) e assorbono il 24% dei 2 mld, mentre altre due (edilizia scolastica e sanitaria) ricadono sulle varie città pro quota e le rimanenti non riguardano le città. Pare difficile sostenere che non ci siano risorse destinate alle città maggiori. Ciò che manca ancora, invece è l’affermazione forte e chiara di una visione nuova per l’Umbria, che rappresenterebbe finalmente un vero punto di svolta rispetto alla sua tradizione centralistica, che le città non sono solo destinatarie passive di risorse dall’alto ma devono assumere una loro autonomia nell’elaborazione delle strategie di “ripresa e resilienza”. Le città e i loro sistemi urbani saranno i centri-motore della nuova crescita o il PNRR si risolverà in una fiammata effimera. Le risorse oggi disponibili possono rendere possibile questo loro nuovo protagonismo, ma c’è un chiaro orientamento politico della Regione in questa direzione? La linea di riqualificazione urbana (50mln) contiene molta semplice manutenzione mentre potrebbe servire alla trasformazione delle città (ad es. non prevede interventi per il coworking). E, soprattutto, il Piano ignora del tutto la necessità di spingere i processi di aggregazione tra i comuni interni ai sistemi urbani maggiori.
Il Distretto del contemporaneo (11 mln) nasce privo di forza propulsiva, appiattito su una linea di manutenzione dell’esistente, diluito in una insipida dimensione regionale. Il risultato è uno scatolone contenitore senz’anima. Perché, invece, non dargli un’identità forte e legarlo a una o al massimo due realtà urbane?
Oggi, grazie all’Unione Europea, l’Umbria ha il suo bazooka. I soldi a disposizione sono veramente tanti. Possono servire ad avviare una nuova crescita duratura e sostenibile oppure solo a produrre una grande, effimera fiammata. Per ora, il PNRR Umbria offre tante opportunità ma solleva anche un gran numero di dubbi e perplessità. La notizia positiva è che sono ancora possibili correzioni e arricchimenti. L’auspicio è che ci si metta mano davvero e presto.