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Andrea Cardoni
Università degli Studi di Perugia

NO EBITDA, NO PARTY

26 Mar 2021
Tempo di lettura: 3 minuti

L’EBITDA, impronunciabile acronimo di Earning Before Interest Tax Depreciation and Amortization, è il margine che meglio esprime il posizionamento strategico di una azienda e la sua capacità di generare flussi di cassa. E’ l’unica misura di performance reddituale considerata nei contesti finanziariamente evoluti. Rapportata al livello di fatturato, esprime l’ancora più famoso (o famigerato) EBITDA margin (%).
Un adeguato livello di EBITDA margin significa che il modello di business dell’azienda crea un significativo valore aggiunto, grazie ad una capacità speciale di intercettare i bisogni dei clienti, del mercato, e alla combinazione unica di processi, prodotti e servizi. Vuol dire che l’azienda ha conquistato, con tanto lavoro, sacrifici, bravura e anche tanti investimenti (tangibili o intangibili), un vantaggio competitivo. Un alto livello di EBITDA significa anche generare i flussi di cassa necessari a sostenere quegli stessi investimenti, alimentando così un circolo virtuoso: + INVESTIMENTI -> + EBITDA -> + INVESTIMENTI.
Con un basso EBITDA margin questo circolo diventa vizioso: NO EBITDA, NO PARTY.
Esiste un livello giusto di EBITDA margin valido per ogni azienda? Ovviamente no! Occorre considerare il settore (industria, commercio e servizi), il modello produttivo (capital intensive, labour intensive), il modello di business (cost driven, value driven).
Tuttavia, almeno negli appetiti e nelle attese degli investitori, si è consolidata la soglia psicologica del 10%. Sopra quel livello, l’azienda viene ritenuta attrattiva perché ha attivato un ciclo speciale di creazione del valore. Sotto quel livello, l’azienda fa bene il suo mestiere, magari non ha problemi di redditività, ma difficilmente ha un vantaggio competitivo sostenibile e una sufficiente forza finanziaria per lo sviluppo.

Vediamo cosa succede in Umbria, nel segmento delle PMI con un fatturato dai 10 a 50 milioni di euro, a mio parere molto interessante per l’economia regionale.
Si tratta di circa 300 aziende, con un valore della produzione complessivo di circa 6 miliardi di euro e oltre 26 mila dipendenti (dati di bilancio 2019). Di queste, solo una azienda su quattro (25%) realizza un Ebitda margin superiore al 10%, con una situazione disomogenea per settore. Limitandoci a considerare i primi dieci codici ATECO per numerosità, si ottiene la seguente fotografia:

L’EBITDA margin medio (colonna B) va dal 2,3% del “Commercio e riparazione di autoveicoli” al 10,2% della “Fabbricazione di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi”. Al di là delle medie, all’interno di ciascun settore vi sono aziende che superano il 10%. Come si evince dalla colonna D, sono molto poche nel commercio di autoveicoli (1 azienda su 22, pari al 4,5%), nel commercio all’ingrosso (5 su 42, pari al 11,9%) e nella fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche (1 su 8, pari al 12,5%).  Molto più alta la percentuale di quelle presenti nel settore della fabbricazione di prodotti in metallo (12 su 25, pari al 48,0%).

Cosa può significare tutto questo? A parere di chi scrive tre cose:
1)      Raggiungere un EBITDA margin superiore al 10% non è facile. Vi incidono innanzitutto le caratteristiche dei settori in termini di competitività, ciclo di vita e tecnologia. In questo senso, il riposizionamento dell’Umbria verso attività commerciali, la riduzione del peso della manifatturiera e il prevalere di modelli di sub-fornitura non giova all’economia regionale. In aggiunta, le turbolenze e le criticità generate dal COVID, con forti impatti asimmetrici sui settori, renderà tutto ancora più difficile;
2)      Il settore conta molto, ma non tutto. Ci sono aziende che riescono a superare la soglia a prescindere dal settore. A questo fine, la capacità imprenditoriale è condizione necessaria, ma non sufficiente. Per cambiare posizionamento ed EBITDA margin ci vuole tanta strategia, governance e managerialità. E non parlo necessariamente di singoli manager, ma di cultura aziendale diffusa a tutti i livelli  dell’organizzazione. E nelle nostre preziosissime PMI, su questo versante, in Umbria come in Italia, siamo indietro;
3)      I mantra insistenti della innovazione, internazionalizzazione e digitalizzazione, legati agli indiscutibili trend evolutivi, sono piuttosto inutili senza una analisi micro-economica dell’azienda, del suo EBITDA e del suo modello di business. Ognuno di quei mantra implica investimenti e richiede un circolo virtuoso di EBITDA margin, che solo la singola azienda può valutare in una prospettiva strategica.

Da aziendalista ritengo ci sia un unico modo per tentare una sintesi costruttiva con creatività, coraggio e competenza: mettere le analisi, le idee, e i progetti per iscritto e preparare un piano industriale ben fatto. E non perché lo chiede la banca. Altrimenti, come diceva Antoine de Saint Exupery, ”un obiettivo senza un piano, rimane solo un desiderio”.