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Fabio Fatichenti
Università degli Studi di Perugia

Perché escludere la montagna dalla vitivinicoltura?

24 Mag 2022
Tempo di lettura: 4 minuti

Di sicuro interesse appaiono le riflessioni apportate al focus “Vino e arte potenti attrattori” pensato dall’AUR e animato da protagonisti del dinamico universo vitivinicolo regionale, i contributi dei quali illustrano, con differenti ma complementari punti di vista, la necessità di incrementare la sinergia tra vino, territorio, cultura e arte al fine di rafforzare il legame identitario tra l’Umbria e la sua produzione vitivinicola. Il dibattito non ha escluso il prezioso ruolo che in ottica di attrattività potranno svolgere le rinnovate Strade del Vino, con ulteriori opportunità per le “esperienze” tanto ricercate dal turista contemporaneo, nonché le nuove cantine, da tempo non solo meri luoghi di produzione, ma sempre più multifunzionali fulcri di innovazione tecnologica e, in alcuni casi, autentiche opere d’arte in sé. Non si è poi mancato di ricordare come i vini possano assurgere ad “ambasciatori” dello stile di vita, cosicché un potenziamento del legame vino-cultura-territorio potrebbe costituire un ulteriore elemento di fascinazione capace di accrescere l’immagine e il soft power dell’Umbria in ambito turistico e agroalimentare.

Poiché le opinioni degli esperti sembrano aver toccato tutti i nodi essenziali del dibattito, vorrei contribuire a questo patrimonio di riflessioni con considerazioni di natura un po’ diversa, sia pure mirate alla medesima finalità, ovvero il consolidamento e potenziamento del legame vino-cultura-territorio. Potremo cominciare con uno sguardo alla mappa delle zone di produzione DOC dell’Umbria, dal quale emerge che la vitivinicoltura regionale di qualità gravita esclusivamente nella porzione centrale e occidentale della regione; l’Umbria orientale e sud-orientale ne rimangono escluse.


Fig. 1 – Le zone di produzione DOC e DOCG dell’Umbria (da https://www.regione.umbria.it/agricoltura/disciplinari-di-produzione-vini-do/ig-della-regione-umbria)

Si dirà che il fatto non sorprende, trattandosi di territorio appenninico: la montagna – è noto – non offre condizioni ambientali favorevoli all’attività vitivinicola. Questa affermazione tuttavia può essere facilmente smentita, anche perché ai giorni nostri il progresso scientifico-tecnologico ha consentito di superare molte delle difficoltà imposte dai contesti ambientali. Per quanto concerne l’Italia, è poi sufficiente digitare su un qualsiasi motore di ricerca i termini “viticoltura” e “montagna” per comprendere come in molte regioni vi siano aree oltre i 700 m d’altitudine in cui si produce vino di qualità (sono per es. celebri i casi del Trentino-Alto Adige e della Valle d’Aosta, non è il caso di soffermarsi in proposito); dal 1987 è attivo anche un organismo internazionale, il CERVIM (Centro di Ricerca, Studi, Salvaguardia, Coordinamento e Valorizzazione per la Viticoltura Montana), istituito proprio con lo specifico compito di promuovere e salvaguardare la cosiddetta viticoltura “eroica”. In Umbria però la produzione vinicola si concentra sostanzialmente nelle sole aree collinari e in esigue fasce di pianura. Grazie a studi e ricerche di geografia e di storia economica sappiamo tuttavia che la produzione di vino ha sempre caratterizzato tutti gli ambiti territoriali della regione, montagna compresa. A parte la documentazione d’archivio – dalla quale apprendiamo che in passato la vite era coltivata per esempio nel Sellanese o nel Nursino-Valnerina anche fino a 1000 metri d’altitudine – è il paesaggio agrario a conservare in tutta la montagna segni residuali della presenza della cosiddetta piantata o alberata. Questa, funzionale alla coltivazione della vite in coltura promiscua, in pianura e in collina era connessa all’autarchico ordinamento mezzadrile. In montagna, dove in luogo della mezzadria imperava la gestione comunitaria dei terreni, l’alberata era invece in funzione – scrive il geografo francese Henri Desplanques (Campagne umbre, a cura di A. Melelli, Perugia, Quattroemme, 2006, p. 884) – non “della natura e delle attitudini dei terreni, bensì dei bisogni della famiglia contadina (…). Non è razionale coltivare un podere d’alta collina o di montagna come un podere di pianura, ma il contadino (…) vuole raccogliere sulla propria terra quanto è necessario per vivere”. Compresa appunto l’uva destinata alla produzione di vino. Quel che oggi rimane di questo paesaggio e di questa cultura locale è frutto di “resistenze” alla penetrazione delle novità spiegabili soprattutto con l’attaccamento del coltivatore alla terra (lo spiantamento delle alberate fu invece repentino e radicale in pianura e in collina, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta del Novecento, per agevolare la meccanizzazione delle pratiche agricole). Come si sa, tale resistenza dell’ambiente culturale e produttivo montano ha favorito anche la conservazione della diversità genetica di alcune note varietà di specie coltivate (emblematici sono i casi della Lenticchia di Castelluccio e del Farro della Valnerina). Il vitigno “pecorino”, generalmente considerato un’antica varietà originaria dell’area dei Sibillini (la prima fonte documentale in proposito risale al secolo XVI ed è contenuta negli Statuti di Norcia) e dimenticato durante la fase di rinnovamento della viticoltura avviata negli anni Settanta, è stato riscoperto una quarantina di anni fa nel territorio di Pescara del Tronto e poi progressivamente reintrodotto (in Umbria, ma anche nelle Marche, in Abruzzo e nel Lazio).


Fig. 2 – Montagna dell’Umbria sud-orientale: quel che rimane di un’antica piantata (aceri campestri con arbusti di vite ancora maritati), ormai confusa fra i boschi (foto F. Fatichenti).

Occorre dunque riflettere sulla opportunità di rafforzare l’identità vinicola della regione senza trascurare la fascia montana del suo territorio: per tale ragione si deve incoraggiare la rinascita e la diffusione della vitivinicoltura nell’Umbria appenninica, anche a partire da studi e ricerche mirati a recuperare germoplasma autoctono che le imprese vitivinicole disposte a cimentarsi in questa sfida potranno poi valorizzare. Rese comprensibilmente più basse ed elevati costi di produzione avrebbero come contraltare positive ripercussioni non solo sul piano ambientale (il ripristino di terrazzamenti e il recupero alla coltivazione di appezzamenti spesso inerpicati avrebbero la funzione di presidio idrogeologico e paesaggistico), ma anche su quello culturale ed economico, con la salvaguardia e la valorizzazione della biodiversità, la creazione di nuove opportunità d’impresa, il completamento dell’offerta gastronomica con produzioni e denominazioni vinicole strettamente connesse al contesto storico-territoriale appenninico. Nel contempo, le tracce residuali delle antiche sistemazioni e pratiche agricole (fra cui, per esempio, le superstiti alberate) potrebbero essere recuperate e valorizzate in ottica ecomuseale. L’avvio di progettualità finalizzate a riportare la vitivinicoltura in montagna – la Toscana si sta già muovendo con iniziative al riguardo – costituirebbe un avanzamento non trascurabile nel processo di rivitalizzazione delle aree fragili.