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Elisabetta Tondini
Agenzia Umbria Ricerche

Più lavoro (equo) alle donne per la sostenibilità dello sviluppo

19 Mar 2024
Tempo di lettura: 11 minuti

Se nel nostro Paese il Pil fatica a crescere, se le disuguaglianze sociali non si attenuano, se inadeguati livelli di natalità stanno minando gli equilibri economici (oltre quelli demografici), lo si deve anche a una bassa partecipazione al mercato del lavoro da parte delle donne.

La partecipazione delle donne al lavoro per il mercato
L’Italia dell’Unione europea spicca per avere, tra le donne, uno dei più bassi tassi di attività, il più basso tasso di occupazione, una delle più alte incidenze di contratti a tempo determinato, la più alta percentuale di lavoro part-time involontario.

Nel 2022 il tasso di occupazione dai 20 ai 64 anni, pari al 64,8 per cento (ben lontano dall’obiettivo del 78 per cento da raggiungere entro il 2030 e comunque assai distante anche dal 74,6 per cento medio europeo), isolando la compagine femminile scende al 55,0 per cento, quando nei paesi dell’Ue tale rapporto si attesta al 69,3 per cento.

L’Umbria, da questo punto di vista, va meglio dell’Italia (è un dato strutturale), anche se il suo 62,4 per cento di quota di 20-64enni occupate sulle coetanee totali è ancora distante dal 65,3 per cento registrato nelle regioni settentrionali del Paese.

Le donne in Umbria si caratterizzano inoltre, rispetto al Nord Italia, per un più alto tasso di mancata partecipazione al lavoro e per più alte quote di part-time involontario e di tempi determinati sul totale dei dipendenti. Rispetto anche all’Italia, la regione spicca per incidenza di lavori a termine da almeno 5 anni e per rilevanza di lavoratrici sovra-istruite, ovvero occupate in profili sottodimensionati rispetto al livello di istruzione posseduto.

I dati del 2023 attestano un miglioramento della situazione lavorativa delle donne in Umbria e in Italia: cresce il tasso di occupazione 20-64 anni anche tra le donne e, nella regione, si porta a 63,3% (ma si allontana leggermente dal dato del Nord, che arriva al 67,0%).

Una maggiore inclusione delle donne nel mercato del lavoro aiuterebbe fortemente la crescita economica italiana, come dimostrato da un recente studio di Banca d’Italia secondo cui, a parità di altre condizioni, un aumento del 10 per cento del tasso di attività femminile (corrispondente al divario occupazionale italiano rispetto a quello dell’Ue) accrescerebbe il Pil di circa la stessa percentuale nel lungo periodo (F. Carta – M. De Philippis – L. Rizzica – E. Viviano 2023)[i].

Natalità e occupazione femminile
L’Italia si caratterizza altresì per un tasso di fecondità tra i più bassi di Europa: nel 2022 è pari a 1,24 figli per donna, rispetto alla media europea di 1,45 e all’1,79 della Francia. L’Umbria, con il suo 1,13, figura terzultima nella graduatoria delle regioni italiane.

Poiché anche da noi, come succede in molte economie avanzate, il tasso di fecondità risulta positivamente correlato con quello dell’occupazione femminile, una maggiore partecipazione al lavoro per il mercato da parte delle donne sortirebbe effetti benefici anche sulla natalità.

Le scelte di genitorialità degli uomini e delle donne italiane risultano negativamente influenzate dall’instabilità lavorativa: in situazioni di disoccupazione e di contratti a termine la probabilità di avere un figlio è inferiore di 2-3 punti percentuali rispetto al posto fisso (Y. Brilli – B. Fanfani – D. Piazzalunga 2024)[ii], e questa tendenza è ravvisabile soprattutto tra le persone più istruite, quelle che verosimilmente hanno maggiori aspirazioni di carriera. Ma c’è di più: anche in un contesto di coppia, è proprio la situazione lavorativa delle donne a influenzare maggiormente la decisione di avere un figlio (E. Brini – S. Scherer 2023)[iii].

In sintesi, a rappresentare una discriminante sulle scelte di natalità non è soltanto l’avere o meno un lavoro, perché conta anche il tipo di contratto e, considerando che in Italia circa un terzo delle donne nel periodo cruciale per la fecondità ha un lavoro precario, in un’ottica di azioni di sostegno sarebbe naturale aiutare prioritariamente le giovani più penalizzate.

Cerchiamo allora di tirare le fila del ragionamento: la condizione lavorativa delle più giovani assume un rilievo fondamentale nelle scelte riproduttive per cui, se una donna lavora, meglio se con un contratto a tempo indeterminato, è più probabile che voglia avere figli, anche in una condizione di coppia. Una maggiore partecipazione femminile al lavoro per il mercato aumenta il reddito complessivo ma anche la natalità che, a sua volta, alimenterebbe in prospettiva il numero di donne in età riproduttiva, per un rafforzamento di un equilibrio demografico fortemente deteriorato e che rischia di compromettere il mantenimento dei livelli di reddito (come è stato dimostrato in Le conseguenze economiche dell’inverno demografico in Umbria).

Il costo della child penalty per le donne
La disparità di genere all’ingresso nel mercato del lavoro continua tuttavia a persistere, ampliandosi, con la maternità.

Tra gli svantaggi lavorativi delle donne che diventano madri si segnalano i seguenti:

·       la probabilità che le donne occupate diventino disoccupate nei 2 anni successivi alla maternità raddoppia rispetto a quelle senza figli (M. De Philippis – S. Lo Bello 2023)[iv];

·       per le donne non occupate, la probabilità di trovare un lavoro diminuisce significativamente dopo la nascita di un figlio e rimane più bassa rispetto alle donne senza figli per almeno 5 anni;

·       le donne che continuano a lavorare dopo la maternità fino a 15 anni dopo il parto guadagnano il 40 per cento in meno rispetto alle donne senza figli (si riducono le giornate lavorate, ad esempio per il passaggio a contratti a tempo parziale) (A. Casarico – S. Lattanzio 2023[v]).

Date queste evidenze, si sarebbe tentati di sostenere che, dal punto di vista lavorativo, diventare madri non paga, vista la persistenza di numerosi svantaggi sul fronte occupazionale associati alla maternità. Un dato su tutti: nel 2022, la quota di donne occupate tra i 25 e i 49 anni con almeno un figlio in età prescolare è del 53 per cento, ovvero 20 punti in meno rispetto a quelle senza figli, per un rapporto tra i due tassi di occupazione (avere o non avere figli con meno di 6 anni) pari al 72,2 per cento.

Da questo punto di vista l’Umbria presenta un 79,4 per cento, valore addirittura superiore a quello delle regioni del Nord Italia (77,8 per cento). In questo caso si ritiene che la tenuta dei legami familiari nella regione costituisca ancora un valido aiuto per arginare la child penality delle lavoratrici umbre, le quali possono altresì beneficiare di un altro fondamentale sostegno di conciliazione, quello dei servizi per la prima infanzia. Nell’anno educativo 2021-22, l’Umbria primeggia nella graduatoria delle regioni italiane con il più alto tasso di copertura di posti nei servizi di prima infanzia rispetto ai bambini con meno di 3 anni (43,7 per cento). In Italia, invece, la disponibilità di questo servizio è ancora limitata e territorialmente molto disomogenea: l’indice di copertura, pari al 28 per cento, è tra i più bassi in Europa e decisamente lontano dall’obiettivo europeo fissato per il 2030 (45 per cento). Anche il tasso di frequenza, del 33,4 per cento, è lontano dalla media Ue (37,9 per cento), in particolare da Francia e Spagna (al di sopra del 50 per cento) e da Danimarca e Olanda e (69,1 per cento e 74,2 per cento rispettivamente).

I servizi per la prima infanzia sono servizi costosi, sia per la collettività che per gli utenti e, nonostante i contributi dello Stato e di alcune Regioni (tra cui l’Umbria), il costo delle rette rimane elevato. Non è un caso che i genitori dei bambini che frequentano il nido sono più spesso entrambi occupati e hanno un reddito più alto, oltreché un maggiore livello di istruzione, rispetto ai genitori dei bambini che non frequentano. Anche in questo caso, è la condizione lavorativa della madre la discriminante maggiore della frequenza del nido: i bambini con madre occupata frequentano nel 34,2 per cento dei casi, contro il 12,9 per cento dei bambini la cui madre non lavora (Istat 2023[vi]).

È stato stimato che, se si eliminasse la child penalty nei tassi di ingresso e uscita dall’occupazione per le nuove madri, il tasso di occupazione femminile aumenterebbe di 6,5 punti percentuali entro il 2040; se si eliminasse sia per le nuove madri sia per quelle che hanno già avuto un figlio (e forse lasciato il lavoro), il tasso di occupazione femminile si accrescerebbe, già entro il 2030, di 14 punti percentuali (M. De Philippis – S. Lo Bello 2023[vii]).

Oltretutto, la riduzione delle penalizzazioni collegate alla maternità sortirebbe effetti positivi anche sul fronte della contrazione dei divari salariali.

Oltre la maternità: il gender pay gap
Il gender pay gap è un altro fattore di discriminazione che si amplifica nel corso della vita lavorativa e che si fa più consistente in corrispondenza delle retribuzioni più elevate. Continuano a pesare gli stereotipi di genere e il più basso potere contrattuale delle donne rispetto agli uomini, per retribuzioni più contenute riscontrabili anche all’interno di una stessa qualifica. Le occupate con più difficoltà accettano trasferte e incarichi aggiuntivi (che implicano premialità monetarie o progressioni) e tendono a cambiare lavoro meno frequentemente degli uomini, poiché sono spesso condizionate da fattori, quali la minore distanza da casa o orari di lavoro più flessibili, che penalizzano l’aspetto remunerativo e avanzamenti di carriera (Di Addario et al. 2023)[viii].

Nel 2022, le retribuzioni medie annue lorde nel lavoro alle dipendenze nel comparto privato extra agricolo presentano un differenziale pari a circa il 30 per cento a sfavore delle donne, che è di 7.922 euro annui in Italia e di 7.157 in Umbria.

Le donne che lavorano per il mercato risultano sottorappresentate nelle posizioni apicali: nel 2022, nel comparto privato in Umbria, sono il 33 per cento dei quadri e il 13 per cento dei dirigenti, a fronte del 32 e 22 per cento dell’Italia. Inoltre, anche a causa delle loro scelte di istruzione, risultano occupate in settori meno produttivi e in imprese che pagano stipendi mediamente più bassi. Entrambi questi fattori spiegherebbero circa un terzo della differenza retributiva media osservata (A. Casarico – S. Lattanzio 2024[ix]).

Sulle retribuzioni totali medie annue incide anche un più basso numero di giornate retribuite (in Umbria 238 contro le 257 degli uomini e in Italia 236 e 251 rispettivamente), associabile a una maggiore discontinuità lavorativa e a una più elevata diffusione del part-time: mentre i contratti a tempo parziale hanno interessato la metà delle dipendenti, tra gli uomini la quota di coloro che hanno avuto almeno un contratto a tempo parziale nel 2022 in Umbria non ha raggiunto il 18 per cento (21 per cento in Italia).

Isolando il solo lavoro standard, ovvero i tempi indeterminati full-time per l’intero anno, il differenziale di genere scende in Umbria a -9,4 per cento (-11,6 per cento in Italia) che, depurato dalla diversa distribuzione per qualifiche diventa -8,6 per cento (-14,4 per cento). Tuttavia, la forbice retributiva che si propone all’interno di una stessa qualifica, prescinde dal numero di giornate retribuite nell’anno, cioè le donne guadagnano di meno degli uomini anche a parità di giornate lavorate (per approfondimenti, si rinvia a Le basse remunerazioni del lavoro in Umbria: caratteri, cause, implicazioni).

Nel confronto con il dato medio nazionale, nel comparto privato le donne umbre guadagnano meno delle donne italiane, ma la sperequazione di genere è minore rispetto all’Italia, come conseguenza dell’appiattimento verso il basso delle retribuzioni degli uomini nella regione.

Differenziali retributivi consistenti si ritrovano, con le stesse caratteristiche viste nel privato, anche nel settore pubblico (per approfondimenti, si rinvia a Relazione economico sociale /gennaio 2024 – 
L’Umbria che lavora alla ricerca del salto di qualità”).

C’è ancora molto da fare
I dati ufficiali e le evidenze empiriche ci dicono dunque che è ancora lunga la strada per abbattere la discriminazione del lavoro delle donne in ingresso, la child penalty, gli squilibri retributivi, perché il fardello culturale che viene da lontano fa ancora sentire il suo peso. Intanto, per una maggiore presenza, qualità, equità lavorativa delle donne è importante continuare a insistere su più fronti. A cominciare dalle politiche di conciliazione:

·       rafforzando l’offerta di servizi di assistenza all’infanzia per i bambini piccoli e quella domiciliare per gli anziani: il fatto per cui le donne occupate che lasciano il proprio lavoro per oltre la metà dei casi lo fanno per esigenze di conciliazione, non lascia dubbi sull’importanza dei servizi di welfare per sostenere, soprattutto, le donne che lavorano per il mercato;

·       incoraggiando un’organizzazione del lavoro più flessibile e meno basata sulla presenza fisica in ufficio;

·       estendendo l’introduzione di benefit ai dipendenti che includano servizi aziendali di cura per l’infanzia;

·       potenziando i congedi di paternità e promuovendone l’uso, anche attraverso campagne di informazione e sensibilizzazione, al fine di riequilibrare la ripartizione dei compiti di cura all’interno delle famiglie: il tasso di utilizzo del congedo di paternità, in crescita, è ancora basso, e pari al 57,6 per cento (nel 2021 i padri che hanno chiesto il congedo di paternità sono stati 155.845, su un totale di 400mila nascite).

Per contrastare il gender pay gap, oltre a un auspicabile superamento degli stereotipi di genere, si dovrebbe puntare a:

·       rafforzare il potere contrattuale delle donne con il datore di lavoro;

·       garantire una maggiore trasparenza all’interno dell’azienda in tema di retribuzioni. Al riguardo, la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio Ue 2023/970 sulla parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, fissa le prescrizioni minime per un incremento dell’applicazione del salario equo e impone l’obbligo per i Paesi dell’Ue di incorporarle nella legislazione nazionale entro i primi di giugno del 2026.

Non ultimo, si vuol ribadire l’importanza dell’istruzione, soprattutto di quella terziaria, quale fattore protettivo per l’occupazione (soprattutto) delle donne, anche di quelle con figli piccoli: le statistiche attestano che, in corrispondenza di un livello di istruzione più elevato, la differenza occupazionale tra chi è madre e chi non lo è si riduce considerevolmente. In particolare, si auspica una maggiore propensione all’alta formazione nelle materie tecnico-scientifiche, perché ai lavori che ne derivano sono associati livelli retributivi più elevati (invece in Italia le scelte accademiche delle donne continuano a orientarsi prevalentemente verso facoltà umanistiche, sociali, sanitarie, mentre staziona al 39 per cento la quota di laureate in materie STEM).

In estrema sintesi, se più donne lavorano, possibilmente in condizioni di stabilità e di equità, il sistema socioeconomico ne trarrebbe grande beneficio, in primis perché si ridurrebbe di molto la fragilità e il rischio di povertà familiare che, in Italia e in Umbria, si è da tempo ampiamente diffusa tra i nuclei di giovani con figli. Più in generale, si produrrebbero effetti positivi sullo sviluppo: intanto per le donne stesse, in termini di riconoscibilità economica e sociale, quindi per la collettività (crescita del reddito e irrobustimento della struttura demografica). Da ultimo, ma non per ultimo, per ragioni di libertà: di azione, di pensiero, di sicurezza personale, poiché l’indipendenza economica è sicuramente il più potente antidoto contro la violenza di genere.

 

 

Note
[i] Carta F, De Philippis M, Rizzica L, and Viviano E (2023), “Women, labour markets and economic growth”, Bank of Italy Workshops and Conferences 26
[ii] Y. Brilli – B. Fanfani – D. Piazzalunga, Quanto incide il contratto di lavoro nelle scelte di fecondità, lavoce.info 05/03/2024
[iii] E. Brini – S. Schreder, Nascite: è il lavoro delle donne a fare la differenza, lavoce.info, 06/03/2024
[iv] Cit. da F. Carta, Le donne, il lavoro, la crescita economica, Banca d’Italia, 22 giugno 2023 (slides)
[v] Casarico A, Lattanzio S, Behind the child penalty: understanding what contributes to the labour market costs of motherhood, Journal of Population Economics, 17 February 2023
[vi] Istat, Offerta di nidi e servizi integrativi per la prima infanzia | Anno educativo 2021/202223, 23 novembre 2023
[vii] De Philippis, M, and S Lo Bello (2023), The ins and outs of the gender employment gap: Assessing the role of fertility, Bank of Italy Temi di Discussione (working papers)
[viii] Di Addario S et al., It ain’t where you’re from, it’s where you’re at: Hiring origins, firm heterogeneity, and wages, Journal of Econometrics Volume 233, Issue 2, April 2023, Pages 340-374
[ix] Casarico A, Lattanzio S, What Firms Do: Gender Inequality in Linked Employer-Employee Data, Journal of Labor Economics, published on line, February 06, 2024