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Andrea Bernardoni
Responsabile Area Ricerche Legacoopsociali Nazionale

Ripensare il welfare dopo la pandemia

15 Feb 2021
Tempo di lettura: 3 minuti

La pandemia di Covid-19 ha messo sotto pressione la rete dei servizi sociali e sanitari, esposti ad un’onda d’urto imprevista, ma non imprevedibile, che ha svelato le fragilità del welfare riconducibili ad una pluralità di fattori, tra cui il sotto finanziamento del Sistema Sanitario Nazionale e della rete dei servizi sociali ed educativi, la presenza di forti diseguaglianze territoriali in termini di risorse, servizi e performance e il forte squilibrio delle risorse destinate al welfare a favore dei trasferimenti monetari piuttosto che al finanziamento dei servizi.
In questo contesto è ragionevole pensare che il welfare nei prossimi anni cambierà. Anche se all’oggi non sappiamo bene in che modo; lungo quali traiettorie; con quali attori; utilizzando quali modelli e con quali risorse. Premesso ciò, questo contributo vuole aprire una riflessione sul futuro del welfare analizzando tre aspetti: il rapporto Pubblico-Privato, quello tra Stato e Regioni e il ruolo della collaborazione per realizzare politiche di welfare efficaci.

Ripensare il rapporto Pubblico-Privato
Un primo tema che la pandemia ha sollevato con forza è la necessità di rivedere il rapporto Pubblico – Privato. Il Covid-19 ha reso evidenti i limiti delle politiche pubbliche, come ad esempio quelle sociali e sanitarie, ma allo stesso tempo ha anche alimentato la domanda di un maggiore intervento pubblico a cui, sino ad ora, è stato risposto prevedendo maggiori risorse per nuove assunzioni di medici, infermieri e operatori socio sanitari da parte delle strutture sanitarie pubbliche. Negli ultimi due decenni, però, il ruolo del pubblico in ambito sociale e sanitario è stato fortemente ridimensionato: sul lato della domanda è cresciuta significativamente la spesa privata delle famiglie per prestazioni sociali e sanitarie e si è rafforzata la presenza dei grandi player assicurativi; mentre, sul lato dell’offerta, è aumentato il peso dei privati for profit in ambito sanitario e delle organizzazioni non profit in quello sociale.
Nel ripensare questo rapporto bisognerebbe evitare il rischio di semplificare e ragionare per slogan del tipo: “tutto pubblico” o “tutto privato”; e, partendo dalle differenze esistenti tra attori pubblici, imprese for profit e organizzazioni non profit, costruire un modello che superi la dicotomia Pubblico – Privato, in cui operino con pari dignità realtà pubbliche, imprese private e organizzazioni del Terzo settore che intervengono nel finanziamento, nella programmazione e nella gestione del welfare, con ruoli e funzioni diversi ma coerenti con le caratteristiche delle diverse tipologie organizzative.
La pandemia, ad esempio, ha reso evidente la necessità di innovare e potenziare i servizi territoriali e l’integrazione socio sanitaria, due obiettivi che potranno essere raggiunti in modo efficace solo coinvolgendo tutti gli attori che operano nel welfare.

Rivedere il rapporto Stato-Regioni
Un secondo elemento centrale per il welfare futuro è la ridefinizione del rapporto Stato-Regioni. Numerosi osservatori hanno individuato nello scarso coordinamento tra il Governo centrale e gli esecutivi regionali uno dei principali limiti riscontrati nell’affrontare la pandemia di Covid-19. Questa criticità è causata dall’elevato livello di autonomia di cui godono le regioni in ambito sociale e sanitario dopo la riforma del Titolo V della Costituzione e da un non adeguato ruolo di controllo svolto dallo Stato che in ambito sanitario ha presidiato prevalentemente la dimensione economica e in ambito sociale non ha mai esercitato un effettivo controllo sulle scelte regionali. L’elevato livello di autonomia delle regioni ha prodotto 22 modelli di welfare regionali caratterizzati da significative differenze che, però, anziché ridurre le diseguaglianze territoriali in termini di servizi, le ha ampliate. Alla base del nuovo rapporto Stato-Regioni dovrebbe essere posto l’obiettivo di ridurre queste disuguaglianze partendo dalla definizione e dall’adeguato finanziamento sia dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) che dei LEP (Livelli Essenziali di Prestazioni).

Ripartire dalla collaborazione
La pandemia ha evidenziato il valore strategico della collaborazione e del coinvolgimento attivo dei cittadini nel garantire la tutela della salute, mostrando come il benessere collettivo non è il risultato di una sommatoria di prestazioni, ma il frutto di una pluralità di comportamenti individuali. In questi mesi l’intera comunità è stata chiamata a collaborare responsabilmente per contenere la pandemia rendendo evidente che la partecipazione dei cittadini è uno strumento necessario per realizzare politiche pubbliche efficaci.
Questa consapevolezza deve produrre un cambiamento culturale ed organizzativo volto a:
1.      ripensare i servizi sociali e sanitari coinvolgendo in modo attivo i cittadini e sperimentando, su larga scala, forme di co-produzione dei servizi di welfare;
2.      rivedere il rapporto tra le amministrazioni pubbliche e gli enti del Terzo settore, impegnati nel favorire e rendere concreta la partecipazione civica dei cittadini, mettendo al centro di questo rapporto il principio di sussidiarietà e di collaborazione piuttosto che la concorrenza e la competizione.
Importanti in tal senso sono le novità introdotte dal Codice del Terzo Settore e da una recente sentenza della Corte Costituzionale, la numero 131 del 2020, che ha riconosciuto e rafforzato gli strumenti della co-programmazione e della co-progettazione in quanto “favoriscono l’instaurazione di un canale di amministrazione condivisa alternativo a quello del profitto e del mercato”.

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