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Sergio Sacchi
Già docente di politica economica Università degli Studi di Perugia

L’Umbria e il PNRR / 6 – Tra crescita e sviluppo?

11 Mag 2021
Tempo di lettura: 9 minuti

Crescita? Forse o anche sì. Ma certamente poco o niente sviluppo.

Potrebbe essere questo il sintetico giudizio finale sul contributo dell’Umbria al Piano Nazionale di ripresa e resilienza redatto al Governo nazionale. Contributo che per brevità citeremo, andando avanti, come Piano Regionale di Ripresa e Resilienza ovvero con l’acronimo PRRR.

Poco sviluppo in quanto sono per lo più assenti riferimenti di un minimo di spessore e rilevanza alle implicazioni in termini di coesione sociale e culturale. E dove se ne individuano delle tracce si tratta di riferimenti fugaci e scontati. Resta in ombra la natura del sistema sociale cui danno vita poco meno di un milione di persone con la loro composizione anagrafica, le loro storie individuali, le loro relazioni e associazioni o la loro età. Quest’ultima ha più di una citazione. Ma l’elevata presenza di attempati individui merita attenzione solo in quanto questi ultimi hanno almeno parte di responsabilità per la bassa produttività dell’apparato produttivo, la scarsa propensione all’innovazione, il limitato tasso di natalità e persino “la tenuta generale del sistema di welfare (politiche previdenziali, sanitarie e socio-assistenziali)” (pag. 12), quest’ultimo considerato sostanzialmente una voce di costo piuttosto che una risorsa.  Se ne trova conferma nei passi immediatamente seguenti ove si ribadisce la necessità di “puntare su politiche volte a contrastare il calo demografico” con una “maggiore partecipazione femminile e dei giovani al mondo del lavoro” e l’introduzione di misure per “favorire la conciliazione lavoro – famiglie, eccetera) e al fine di “incidere sulla produttività del lavoro e sostenere in generale la crescita economica della regione”.

Ora, la questione dell’abbassamento della produttività così come segnalata dalla riduzione del rapporto tra prodotto regionale e numero di occupati (o variabili similari, come le unità di lavoro impiegate o le ore di lavoro erogate) è questione di lunga data, spinosa e anche controversa. Se ne ha involontaria conferma qualche paragrafo più avanti, a pagina 13, allorché si esalta la performance del settore della moda, per il quale si deve prendere nota “di una produttività nettamente superiore, pari a 114,6” (una volta posto uguale a 100 il valore medio nazionale per lo stesso comparto). Il che inserisce una pulce nel nostro orecchio sul senso da dare al basso valore della manifattura regionale e quindi sulle spiegazioni, compresi i necessari chiarimenti, della bassa produttività delle imprese di trasformazione in Umbria, considerando peraltro il fatto che se nella moda si registra un valore della produttività più alto della media (regionale) allora quello dei restanti comparti è da intendere ancora più basso e quindi maggiormente distaccato dai valori medi nazionali. Che dire? Che sono efficienti solo le imprese della moda e catorci da buttare tutte le altre? Beh,  si tratterebbe di una indicazione per avere un orientamento su dove andare a cercare delle lepri, cioè le prime della classe, quelle da cui imparare e su cui scommettere per riprendere a crescere… . Ma allora sarebbe da rivedere, per coerenza, e quasi sicuramente da correggere, una buona metà dei progetti del documento. E’ infatti sorprendente che un settore riconosciuto di buona efficienza produttiva e per di più, ancora abbastanza diffuso sull’intero territorio regionale, un settore che a volte viene ritenuto testimonianza di una almeno minima specializzazione manifatturiera, non meriti nemmeno un piccolo segno di attenzione. Tanto per dire: non un PUB (Polo Umbro del Bello) o una Rete dei Sentieri del Tessile (Re.Se.T.), e nemmeno un Umbrian Fashion District oppure un DeStiNo (Design per lo Stile e le Novità) Network. Niente. Nemmeno qualcosa di ancor meno sofisticato e più banale. D’altra parte il settore, purtroppo, ha da sempre scontato e sembrerebbe ancora scontare una convergenza di giudizi opposti ma convergenti nel tenerlo come in gattabuia: da un lato il pregiudizio sulla povertà della dimensione e sulla vocazione ancillare rappresentata dal terzismo / subfornitura, dall’altro la prevenzione nei confronti di chi finisce per eccellere, per avere una sua autonoma fama con i connessi risultati economici e finanziari pur lavorando nell’effimero e nel frivolo e comunque in segmenti non proprio da Fiera dei Morti a Perugia. Vuoi mettere la solidità di un pistone, il profumo di un buon salamino o il fascino di un prefabbricato o, almeno, di un lucido laminato piano? L’aspetto sorprendente della faccenda è che lo spartito della negligenza viene mantenuto sul leggìo dell’orchestra anche dopo l’avvicendamento degli orchestrali.

D’altra parte, ci sarebbe anche da capire come le diverse proposte sul versante dell’innovazione “spinta”, almeno a parole, specie se in lingua inglese, possano tradursi in realtà con un pubblico e con operatori di cui, per l’appunto, ci si lamenta per la scarsa apertura alle novità e alla modernizzazione digitale. Questo non per criticare la raccolta delle singole proposte e sostenere che queste siano, di per sé, poco funzionali e punto allettanti. Ma solo per invitare a riflettere sul tempo che ci vorrà affinché non si fermino, una volta di più, sulla soglia dell’abile confezionamento di seducenti, entusiasmanti progetti scritti nel linguaggio dei bandi. Varrà qualcosa ricordare la passata esperienza di tanti piani integrati nel nome, modulari nella pratica e del tutto inconcludenti nei fatti. La sfilata delle etichette introdotte è piuttosto lunga: dai primi Centri Tecnici Promozionali ai Parchi, Incubatori, Poli Innovativi, Distretti, eccetera. Qualche insegnamento se ne dovrebbe trarre. In ogni caso almeno alcune contraddizioni restano evidenti (si veda la proposta di installare un qualcosa per la grafica nel cuore della Valle Umbra piuttosto che in quello dell’Alto Tevere umbro) e confermano la sensazione diffusa, manifesta anche in alcuni degli interventi già messi in rete, che conti più il nome delle cose piuttosto che le ragioni della storia e della geografia per un confronto testa a testa col Documentone nazionale (quasi una versione moderna del mitico “voi suonate le vostre trombe e noi le nostre campane”).

Come osserva il professor Diotallevi c’è un evidente problema di controllo “coerenza delle 45 linee di intervento”.

Certo, vi sarebbe stata l’alternativa di prendere atto di ciò che accomuna molti degli interventi previsti e, visto che una buona parte di essi ha, allo stesso tempo, una fisionomia specifica e vistosi intrecci con altri, sarebbe stato interessante seguire la rete che li accomuna e che ha un senso proprio tenendo conto di quell’aspetto, più volte enfatizzando, delle piccole dimensioni della regione. In effetti questa sì sarebbe stata una innovazione sostanziale nella stessa P.A. regionale. E se il buongiorno lo si volesse ancora vedere dal mattino poteva essere un bel segnale per l’opinione pubblica.

Sappiamo e ci ripetiamo di continuo che l’Umbria è una regione piccolina (poco più dell’1% dell’intero Paese), vecchietta (lo si è già ricordato) e pigrotta (restia a seguire il richiamo dei processi innovativi). Una regione che sta alle dimensioni di altri territori in campo come un mezzo guscio di una noce sta ad un vascello.  In circostanze del genere pensare a replicare su scala bonsai le fattezze e la sostanza di programmi adatti ad unità amministrative di dimensioni maggiori, pensare cioè a candidarsi ad ottenere l’1,4% delle risorse di ogni linea di intervento prevista nei programmi nazionali potrebbe rivelarsi improduttivo e financo dannoso. Sarebbe come pensare che la casa di una famiglia monoreddito possa essere una miniatura precisa di una villa dell’area milanese. Lo spazio conta, e manco poco, e spesso fa la differenza. Nella casa monoreddito non c’è nemmeno il posto letto in luogo della camera riservata al maggiordomo o alla domestica a tempo pieno. Non c’è la stanza degli armadi ma qualche scatola sotto il letto, con qualche confetto di naftalina. Riprendiamo ora in mano i vari aspetti destinati ad accavallarsi, intrecciarsi e al limite sovrapporsi mentre sono elencati in ordine sparso, quasi disciolti, nelle sei missioni di riepilogo (tant’è che se ne evidenzia la corrispondenza con i capitoli del Piano nazionale ma se ne ignorano le interrelazioni tra di essi, un po’ come scegliere i giocatori di una squadra di calcio sulla base delle lettere iniziali dei cognomi invece che in base ai ruoli rispetto alla partita che si intende giocare!). Si considerino, ad esempio, il proposito di ristrutturare gli studios di Papigno a Terni (Miss.1; #11); quello di provvedere alla “realizzazione di opere infrastrutturali per il recupero e la funzionalizzazione di beni o siti e per il supporto di forme di fruizione specifica (sia strutture materiali che attrezzature e servizi di accoglienza, organizzazione/offerta di attività fruitive, informazione e divulgazione conoscitiva)” a beneficio della valorizzazione di beni ambientali e di beni culturali (Miss. 1; #11 e #12); il progetto di costruire “strutture ipogee da destinare alla sosta residenziale dei veicoli, in quartieri difficili da servire in modo alternativo” (Miss. 2; #19); le iniziative di riqualificazione urbana e connesse nuove politiche abitative (Miss. 2; #24); la previsione di scuole nuove per una scuola nuova (Miss. 2; #25); e gran parte, infine, degli interventi inclusi nelle “missioni” da 3 a 6. Si tratta di misure che potrebbero essere agevolmente e sinteticamente descritti in termini di metri cubi e numero di mattoni.

Ora, nella casa di una famiglia monoreddito dove non c’è un acconcio spazio guardaroba o una sala per gli attrezzi da cucina ma tocca, per molti compiti, arrangiarsi i progetti appena elencati li avrebbero probabilmente riuniti in un pratico scatolone, etichettato in modo da essere riconosciuto alla bisogna (tipo: Umbrian Life Quality) in modo di rendere evidente che si può pensare ad un disegno unitario, funzionale e riconoscibile, per il modello urbanistico che ne scaturisce: edifici di civile abitazione, uffici pubblici, scuole, strutture sanitarie, arterie stradali, e quant’altro possa essere individuabile da un drone che sorvoli il territorio e riesca facilmente a seguire e riconoscere dall’alto l’ordine di una trama intelligente e intellegibile e non la spregiudicatezza caotica di un assalto di stampo barbarico.

E’ d’altra parte in questo stesso contesto che, a mio avviso, si ritrova il senso del tema, da tempo ricorrente, di un’armatura urbana capace di far da telaio robusto alla trasmissione delle forze generate dal PRRR e dunque di porsi essa stessa come fattore di velocità: crescita e/o recupero di produttività, per stare alla lettera e allo spirito del documento. Forse anche più del solo semplificare il tutto concentrando in quattro/cinque città da 200 mila abitanti l’attuale popolazione dell’Umbria

Che se mai si volesse accogliere come mission unitaria e di prevalente interesse strategico quella della qualità del vivere urbano e della attenzione alle implicazioni innovative, avveniristiche e futuristiche che essa trascina con sé e per far ciò ci si dovesse concentrare sulla questione della poca consistenza urbana degli abitati regionali, dovremmo tenere presenti i dati di fatto: due sole città hanno almeno cento mila abitanti e una 55 mila. Delle restanti 89 sedici hanno un numero di abitanti compreso tra i 10 mila e i 40 mila abitanti, 18 vanno dai 4 ai 10 mila abitanti e le rimanenti 55 hanno meno di 4 mila abitanti (e dieci non arrivano neanche a mille!).

Ora è vero che ambienti urbani dotati di una certa massa possono favorire una sostanziosa scalabilità e dare modo di cogliere di profittevoli opportunità dal ventaglio della varietà delle produzioni che si possono realizzare. Ma è vero che il territorio sta già dando il massimo che può dare stante la scarsità e la non eccelsa qualità delle infrastrutture di comunicazione presenti. Infrastrutture impoverite e indebolite non solo dall’età e dalla poca manutenzione ma anche dalle resistenze (ci sono anche loro e non solo le resilienze!) frapposte dalla natura dei suoli, dalla distribuzione dei rilievi e dei fiumi, e dalla stessa storia degli insediamenti.  In fin dei conti è dai fattori naturali appena ricordati oltre che da quelli storici, sociali e persino igienico-sanitari (diffusione di malaria e altri malanni nelle malsane campagne di pianura) che deriva quella ricchezza di borghi e quella successione di paesaggi puntinati da mura, bastioni e abitazioni che rendono “splendidi” i paesaggi e gli ambienti delle aree interne. Splendidi ma non per tutti. E certamente non per chi vi dovrebbe risiedere visto che la fuga dai centri minori e periferici appare inarrestabile e che resistono all’idea di abbandonarli solo gli ultraottantenni. Per rivitalizzali quei borghi l’auspicio di un aumento dei tassi di natalità non basta certamente. E nemmeno un robusto incentivo monetario. E persino delle avanzatissime tecniche geriatriche si troverebbero di fronte a difficoltà insormontabili. Salvo poi, nel contempo, porsi il problema della manutenzione del territorio, della regimazione delle acque, del presidio rispetto alle tendenze naturali del rinselvatichimento e dell’estendersi del fabbisogno di normale controllo di pubblica sicurezza, per non parlare degli effetti sulla crescita dei valori delle rendite fondiarie che un processo di espansione delle città porta generalmente con sé.

In alternativa poteva esserci un altro filo conduttore: quello della riconnessione moderna e bidirezionale dell’Umbria al mondo circostante, tema anche questo richiamato da Diotallevi.

L’intero documento, pertanto, soffre di un handicap di non poco conto. Che non sta tanto nell’uno o nell’altro degli interventi previsti quanto in ciò che manca per animarlo in modo convincente. Il cahier umbro, infatti, assomiglia a tanti altri, è vero ed è stato detto. Il fatto è che se il piano è analogo ma la regione alla quale è indirizzato non è analoga si rischia seriamente di andare fuori tema. E più in generale verrebbe da dire che la filosofia sottesa muove dalla convinzione che la sfavorevole congiuntura determinata dal Covid e da qualche piccolo acciacco che ci stavamo portando appresso sia destinata a cedere il passo ad una ripresa dei consumi e della produzione, facendo ripartire il sistema regionale dai dati di una decina di anni addietro per portarlo almeno sullo stesso trend di crescita dell’economia nazionale. Tuttavia la crisi sistemica del modello di sviluppo della seconda metà dello scorso secolo è più insistente di quanto si ammetta e non la si sana limitandosi a ritoccare qua e là i problemi con spennellate di vernice verde, anzi: green, e cercando di provvedere a circolare più velocemente.

Insomma, le questioni sono serie, non è con documenti-collage che si possono rimuovere i ritardi dell’Umbria e predisporsi ai cambiamenti planetari che si profilano. Ritardi e cambiamenti sono ben presenti, ma in controluce, ovvero guardando alle soluzioni, le sole che vengono prospettate forse confidando che l’opinione pubblica si accontenti. Un po’ come la storia delle brioches con la proposta di distribuire le quali si sarebbe voluto celiare la mancanza di pane da distribuire alla popolazione. Ma la compressione dei costi, l’insicurezza sul e del lavoro o il welfare lasciato ad avvizzire su sé stesso, sostituito dal lavoro improvvisato di donne immigrate, sono sintomi inequivocabili di un più grande problema: l’esaurimento di quelle risorse umane, ambientali e sociali che hanno permesso la trasformazione economica della regione e la crescita nell’epoca aurea della seconda metà del secolo scorso.

Si tratta, in definitiva, di questioni pesanti che vanno trattate con equilibrio e coscienza e risolte nel rispetto dei valori di fondo e delle regole di convivenza condivise dalle popolazioni. Soprattutto non negando a sé stessi il fondamento di quanto il signor Palomar (Italo Calvino) ci ricordava e cioè che “ciò che i modelli cercano di modellare è pur sempre un sistema di potere; … ciò che conta veramente è ciò che avviene nonostante loro: la forma che la società va prendendo lentamente, silenziosamente, anonimamente, nelle abitudini, nel modo di pensare e di fare, nella scala dei valori…

Il rischio, come per altre, precedenti esperienze, è che del Piano Regionale per la Rinascita e la Resilienza alla fine non resti molto di più del semplice acronimo (PRRR).